I miei figli se ne vanno all’estero, praticamente nello stesso momento, e chissà quando e se torneranno. Stefano lunedì prossimo va ad Edimburgo a lavorare (gli hanno assicurato che non dovrebbe essere un problema, mentre qui è al momento impossibile, e forse non solo al momento), Michele il giorno dopo vola fino a Teheran per un corso di persiano (sperando che possa servire per una occupazione futura). Oltre che “fuga di cervelli” – loro ne hanno, molto – credo che bisognerebbe istituire ricerche ad hoc per capire anche quanti danni provoca la “fuga dagli affetti”, forzata: sono sicuro che verrebbero alla luce in tutta l’immensa portata effetti devastanti collaterali – per i figli che se ne vanno e anche per i genitori che restano – e nessuno li risarcisce.
Il risvolto bello – perché bisogna sempre trovarne, altrimenti si va avanti a fatica – è che prima della loro partenza ci siamo ritrovati tutti e tre per stare qualche giorno insieme: non succedeva da almeno dieci anni (ma forse di più), ed è stato davvero emozionante e per me anche indimenticabile. Soprattutto il viaggio in macchina verso l’aeroporto per accompagnare Stefano; lo abbiamo fatto in silenzio quasi religioso, ma era chiaro come fosse alta la tensione del momento, e anche come il tragitto evocasse in maniera nitida momenti importanti del nostro passato. Ad esempio, un altro viaggio in macchina, loro bambini, sotto una pioggia fittissima; eravamo di ritorno a Milano dall’Oltrepò pavese, e io li riportavo dalla loro mamma perché era finito il “mio week end” da papà separato ancorché condiviso: adoriamo la pioggia, noi, e non avremmo mai voluto arrivare tanto era incredibile lo scrosciare intenso, la luminosità dei lampi e il rumore dei tuoni. Invece alla fine siamo arrivati, e quello sì che fu un distacco tristissimo: era successo da poco il frantumarsi della famiglia e nessuno di noi tre riuciva a farsene una ragione. E poi subito dopo, a cascata, mi sono venuti in mente anche altri ricordi. Belli e anche buffi, come quello che mi evoca ogni volta che ci penso la faccia di Stefano davanti a Buffon nella sorpresa che gli avevo preparato mettendolo inaspettatamente di fronte al suo eroe; oppure quella incredula e poi divertita di Michele quando lo rincorrevo per le corsie dell’Esselunga con in testa un cappello a forma e disegno di panda, orecchie nere comprese, io quasi urlando: “Figlio mio, perché scappi? Non ti vergognare del tuo papà!”, e la gente ci guardava come fossimo matti. Teneri, come quando a Stefano piccolissimo dicevo che per prendere una cosa doveva chiedere “posso”, e lui un giorno mi ha quasi trascinato davanti all’interruttore della luce e mi ha detto “Sosso prendere schiaccia?”; ancora, Michele, quando la sua mamma – che è medico – a cinque anni disse in casa che aveva un paziente con problemi di erezione, e da bravo bambino ingenuo chiese cosa volesse dire: io glielo spiegai e di rimando lui, subito: “Ma basta che vada vicino a una bella ragazza e la malattia passa”, giuro che disse così. E pure tristi, come il giorno che si scoprì il diabete di Michele e ci misi qualche minuto a capire che era per sempre, e me ne andai in un’altra stanza a piangere; o quando Stefano mi chiese se tornavamo a stare a casa tutti insieme per la Befana (me ne ero andato il primo dell’anno), e poi – in un crescendo mio di no – se sarebbe successo almeno per carnevale, per il mio compleanno (a maggio), per le vacanze, o per il suo di compleanno (a settembre), e alla fine ci asciugammo le lacrime insieme. Eh sì, ci sono momenti belli e brutti che non si dimenticano, ad onta degli anni che passano e in qualsiasi parte del mondo vadano a finire i nostri affetti più cari, che più dei figli non ce n’è.
Sono coraggiosi, Michele e Stefano, e partono. Qui, in questa Italia negletta, la speranza è morta, e qualche disgraziato ben riconoscibile ce l’ha tolta negli anni pian piano (soprattutto i loro di anni, praticamente da quando sono nati) senza che all’inizio neanche ce ne accorgessimo. Ma andrò a trovarli, e senz’altro (voglio crederci) un giorno torneranno, vincitori del loro destino. Tanto io ci sono, loro anche: questo nessuno può togliercelo mai, e la distanza conta niente. Buon viaggio, ragazzi “miei”.