Diverse e variegate possono essere le conseguenze che derivano dalla scrittura di un libro. Qualcuno, nel tempo, mi ha anche detto chi mai me lo abbia fatto fare, ma se avevo dubbi di questo tipo mi sono passati giovedì scorso, alla Salumeria della Musica di Milano. Quello è stato uno dei momenti – e ce ne sono stati altri fin dalla pubblicazione del bel tomo, quasi sempre relativi al fatto che niente vale più di un nuovo amico come conseguenza a cascata di quell’avventura – nei quali la certezza che ne valesse assolutamente la candela ha prevalso su tutto insieme alla soddisfazione di condividere una storia, tante storie, con altri, tanti altri.
E’ stata una serata bellissima, che palate di neve calate improvvide dal cielo non sono riuscite a rendere impraticabile come può succedere su un campo di calcio, ché proprio a quello era dedicata. Anche quasi magica per l’atmosfera, dove proprio la passione per quel gioco “pulito” ha trovato spazio in un contenitore perfetto; a farla da padrone è stata soprattutto la musica: milanese e non solo, sportiva e non solo, creativa e non solo. Tre grandi artisti con annessa orchestra di altrettanto superiore livello hanno dato il meglio di loro del tanto che sanno; un sindaco che più simile a noi che l’abbiamo votato non si poteva immaginare; un altro indubbio e inaspettato artista (non solo della pelota) come Giovanni Lodetti (milanista, ma non ahimé) ci ha narrato un mondo del pallone lontano anni luce da quello di oggi, anche se di anni da quell’allora ne sono passati pochi; una donna splendida come Debora Villa ci ha saputo strappare da dentro la gioia di ridere di noi e su di noi, soprattutto uomini con tutti i nostri difetti – ben superiori ai pregi – se sappiamo essere coscienti di averne, e diciamocelo che sono tanti.
Lo spazio dedicato che ho condiviso con Claudio Sanfilippo, uno dei “magnifici tre” cantautori sul palco – gli altri erano Carlo Fava e Folco Orselli: straordinari! – e anche mio co-autore di “Fedeli a San Siro”, è stato un grande regalo che lui e gli altri protagonisti mi hanno voluto fare, e la nostra non-preparazione alla comparsa(ta) in scena è stata anche la carta assolutamente vincente dell’esibizione (!) a due. Prima di entrare nel vivo io e il Sanfi ci siamo detti praticamente all’unisono, quindi in placida e non battagliera versione rossonerazzurra: “Dai, andiamo tranquilli: non c’è bisogno di studiarci prima niente, facciamo come ci viene”, ed è andata benissimo. Vestiti come due ragazzini dell’oratorio – sì, lo siamo ancora adesso, e per fortuna -, ognuno rispettivamente orgoglioso della maglia storica della sua squadra del cuore indosso (la mia, naturalmente, era quella nerazzurra), un pallone di cuoio scuro come lo erano i palloni in quegli anni: è così che ci siamo lasciati andare al racconto dei passaggi del nostro libro, andando anche oltre quella e narrando episodi che in quelle pagine non hanno trovato alloggio e che forse lo troveranno la prossima volta che ci metteremo di nuovo all’opera: le storie personalmente vissute a forme sferica non smettono di tornarci ancora in mente e se ne intrecciano con altre nuove e fresche, e chissà mai.
Il pubblico ha sorriso, riso e applaudito a scena aperta, quasi come per un gol (interista, of course!) di Djorkaeff in rovesciata a San Siro, e qualcuno alla fine mi ha anche detto che possiedo “i tempi giusti della comicità”! Non posso nemmeno dire che sia stata in assoluto una prima del genere: mia suocera Olga me lo ripete spesso quando le faccio scherzi anche terribili come nascondermi nell’armadio ella sua camera e poi uscirne urlando come un pazzo, oppure vestendomi con il suo cappello, o ancora rubandole di prima mattina qualche oggetto dalla camera e poi fingiamo insieme un recupero da operetta: “Tizià, dovevi fare il comico, invece del giornalista: sai quanto guadagnavi di più!” (in verità mi dice anche, cambiando semplicemente il complemento quando le preparo il pranzo: “Dovevi fare il cuoco invece del giornalista, sai quanto guadagnavi di più!”, ma ha novant’anni, non posso obbligarla a decidere una volta per tutte sulla mia professione remota, e mica la posso mettere davanti a scelte così epocali ancorché accantonate).
Saranno stati in tutto quindici minuti di gioco (nostro) recupero compreso, ma sono stati attimi unici e di novità assoluta, e quando l’arbitro immaginario – quello inflessibile, dei tempi dello spettacolo – ci ha fatto tornare con i piedi sull’erba quasi ci dispiaceva lasciare quel morbido terreno di gioco, che davvero più gioco di così non si poteva. Succede, quando si è segnato un gol da favola ricoprendo al massimo il ruolo di onesto mediano, quindi senza aspettarselo. In verità, non potevo sperarlo nemmeno nei miei sogni più belli, colorati, fantasiosi; in genere quelli mi fanno trotterellare immaginariamente sulla fascia destra del mio stadio del cuore, vestito con la tenuta di gioco giusta e nell’atto di crossare in mezzo: è anche il succo dell’ultimo capitolo del nostro “Fedeli”, che ho intitolato appunto “Sogno nerazzurro”. Come si suol talvolta dire, di sognare non bisogna smettere mai, almeno finché la palla rotonda (che non è solo un modo di dire, ma anche una nuova canzone di Claudio Sanfilippo che assurgerà presto a palcoscenici “mondiali”, e non scherzo per niente) continua a correre veloce anche nella fantasia di chi non è più bambino – come noi due attempatoni, meglio ammetterlo – ma per fortuna non vuole mai smettere di esserlo, per sempre almeno un po’.