Viaggiavo di notte, allora, in macchina da Milano a Roma: lo facevo spesso in quel periodo, per essere poi la mattina presto puntuale nella sede della Fp-Cgil nazionale. Curavo il mensile di quell’organizzazione, ed era un lavoro talmente splendido che il viaggio non mi pesava; anzi, mi sembrava di volare verso qualcosa di bellissimo e utile, ogni volta e ogni mese che lo facevo. Sempre, alla viglia della partenza andavo a letto abbastanza presto, poi mi faceva compagnia il buio fin quando si cominciava ad intravedere l’alba allo scollinare dall’Appennino. Tutto – anche quel corollario geografico – mi sembrava un regalo assoluto che la sorte aveva deciso di farmi, e la fatica non si sentiva mai per niente, anche quando chiuso il giornale ripartivo per tornare a Milano, a casa. Ogni volta quel viaggio era un’avventura e una scoperta, anche se dopo mesi che lo facevo poteva sembrarmi tutto uguale, e invece era sempre diverso: magari per un particolare, o per un incontro.
Quella notte, quella fra il 7 e l’8 giugno del 1984 avrebbe rappresentato qualcosa di più dell’assolutamente tutto diverso: molto di più. Non avevo visto il tg notturno della sera prima né ascoltato la radio durante il viaggio quindi, quando parcheggiai in via Boncompagni (allora la sede della Funzione Pubblica era lì), mi colpirono subito le facce tristi che andavo incrociando, da quella del portiere in poi. Ricordo che quella volta arrivavo fin là per preparare la festa nazionale della categoria, che avrebbe dovuta essere la prima della sua storia. Arrivato nell’ufficio di Valeria Fedeli lei me lo disse subito dopo avermi guardato in faccia e intuito che ancora non ne sapevo niente: “Enrico ha avuto un malore durante un comizio a Padova. Dicono sia un ictus, e che non ci sia più niente da fare. Naturalmente, la festa è stata cancellata”. Lo chiamò solo così, “Enrico”, e non ce n’era un altro al quale dovevo far correre il pensiero per capire di chi si trattasse. Rimasi inebetito, e non ricordo nemmeno bene cosa successe nelle ore immediatamente successive: forse qualche telefonata per disdire artisti e piazza, manifesti e turni. Poi, senz’altro, l’attenta attesa collettiva delle notizie che arrivavano da Padova, utili solo a confermare quello che di nefasto già avevamo capito tutti, nessuno escluso. Forse per la prima volta, nella vita, sperai in un miracolo, ma poi mi dissi subito che a uno come Berlinguer il cielo non ne avrebbe riservati, a lui che – pur se da laico, e forse soprattutto per quello –aveva provato a farne tanti.
Nel pomeriggio andai – trasportato fin lì in maniera naturale e irresistibile – in via delle Botteghe Oscure, dove già erano convenuti in centinaia senza che nessuno lo avesse detto a nessun altro: i comunisti sono così, e sanno come ritrovarsi e muoversi nel giusto spinti da qualcosa che li unisce in maniera (anche) silente e condivisa. Il silenzio, sì, era assordante: seduti per terra, in piedi nervosi e impegnati avanti e indietro, in quei pochi metri vicino al portone di una sede così carica di storia e di ricordi (molti dei quali legati proprio a lui) era l’avanguardia di un popolo che di ora in ora si sarebbe ingrossata in maniera incredibile, fino a diventare popolo e basta. Erano già in distribuzione le copie della prima edizione straordinaria dell’Unità, e una scorsa al bollettino medico stampato in prima pagina davano la conferma una volta di più dell’ineluttabile, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno. Ho parlato sottovoce e abbracciato talmente tanta gente di quel popolo in quelle poche ore come poi non l’ho fatto mai più, in tutta la vita. Da lì, poi, sono partito di nuovo verso Milano, con le lacrime agli occhi e la tristezza che non mi ha lasciato più, per non so quanto tempo.
Solo tre giorni ancora, e “Enrico” se ne sarebbe andato per sempre: era esattamente l’11 giugno 1984, trent’anni oggi, e per il dolore che si prova anche adesso sembra oggi lo stesso di trent’anni fa. Due giorni dopo, in occasione del suo oceanico e struggente funerale, L’Unità – affiancandovi una splendida fotografia sua – titolava semplicemente “Ciao Enrico”, ed è quello che viene da dire esattamente anche adesso, come se si trattasse di formulare un arrivederci a un amico carissimo, e soprattutto a un “compagno” unico. Quella copia di giornale naturalmente la conservo, e oggi l’ho tolta dall’archivio per tenerla vicino. Mi sembra il modo migliore per salutarlo, in questi giorni, e sentire in maniera chiara e forte che non se n’è mai andato nella nostra memoria. Quindi, “Ciao, Enrico”. E grazie di esserci stato, e di esserci ancora.