Quello che segue è il mio primo capitolo di “Fedeli a San Siro”, il libro scritto con Claudio Sanfilippo e pubblicato da Mondadori per la collana ‘Strade Blu’. Parla del Mundial di Spagna 82: delle emozioni, delle amicizie che nacquero proprio in quell’occasione, dei ricordi – calcistici e non – che sono senz’altro fra i più belli di tutta la mia vita. Credo sia un regalo da fare a tutti in questo momento, anche e soprattutto un augurio per i Mondiali che si aprono oggi, in Brasile. Auguro anche a tutti i ragazzi di oggi di poter vivere qualcosa di così intenso come lo vivemmo noi, ormai 32 anni fa, e che un giorno possano raccontarlo: la memoria non deve poter fuggire mai, e se invece cominciasse a farlo non dobbiamo permetterglielo, e niente più dello scriverla e descriverla può mantenerla in vita, per sempre. Buona lettura, a tutti!
Senza alcun dubbio via Guerrini ha rappresentato un capitolo fondamentale della mia vita. Fra le altre cose è lì che ho incontrato il Sanfilippo, anche se non mi ricordo bene com’è successo. Forse perché io abitavo a pianterreno, e lui ci passava per prendere le scale e arrampicarsi fino a casa sua, tre piani più su: può essere che ci siamo incrociati così, e con un classico “Buonasera!”, “Come va?”… dev’essere scattata una sorta di scintilla amicale. Magari riconoscendoci qualcosa in comune, ché in quegli anni contava la “compatibilità”, magari nel modo di vestire o di guardarsi, anche se di quei tempi era già avviata in pieno quella fase che allora chiamammo “riflusso”. Sarà stato questo o altro, ma io credo che il motivo fondamentale sia stato il calcio. Mi piace immaginare che in occasione di uno dei nostri incontri sul pianerottolo uno di noi due avesse in mano la Gazzetta, e allora: “Ah, la legge anche lei!”, “E lei a che squadra tiene?”, “Ma diamoci del tu!” e il gioco è (fu) fatto.
Ritengo quasi imperdonabile non ricordare il come, ma senz’altro è fondamentale che ricordi il cosa ci abbia fatto incontrare e rendere stabilmente amici. Doveva essere l’81, perché solo pochi mesi dopo, cementata in breve la conoscenza personale grazie alla reciproca passione pedatoria, avremmo avuto occasione di vivere insieme la cavalcata splendida di un mondiale di calcio indimenticabile. Per l’occasione io “accenderò” (si dice così, l’ho imparato allora) addirittura il primo debito rateizzato della mia vita – primo di una lunga serie, intendo – lanciandomi nell’acquisto di una televisione a colori. Qualche tempo fa qualcuno mi ha ricordato che si trattava di un “Sinudyne-colore-stupore”: sì, andavo dicendo proprio così, ripetendo lo slogan ridicolo che lo pubblicizzava da vero pirlone a tutti quelli che arrivavano in casa e si bloccavano per ammirarlo a bocca aperta. Gente che, anche se ho magari perso di vista (sempre lustri e lustri sono, da allora), son sicuro che adesso gira con il palmare, l’oganizer, l’iPod, riceve mail e anche facebook sul cell, ha in casa Mac e Pc, e via di questo passo. Io di tutte queste possibilità hi-tech non capisco quasi un cazzo, ma invece, in quell’estate ’82 li ho stracciati tutti proprio con il mio “Sinudyne-colore-stupore”. Bisogna tenere conto che i tv color non erano poi così diffusi, e anche per questo il mio salotto diventò automaticamente un luogo cult per quelli della nostra età (tutti fra i 20 e i 30 anni) che venivano lì e che si sentivano a casa loro senza genitori tra le palle, che è più o meno la stessa cosa che pensano oggi i miei figli quando ci ritroviamo in situazioni analoghe. Erano ben 36 rate senza interessi, e non mi ricordo quanto costasse la rata singola, ma sono certo che era onerosa e – una costante, da allora in poi – senz’altro superiore alle mie possibilità. A ben pensarci (mi viene in mente solo adesso) forse quel Mundial vissuto a colori con gli obblighi di pagamento ad esso connesso ha contribuito ad accelerare il mio ingresso “serio” nel mondo del lavoro, e con il senno di poi sono costretto ad ammettere che fu un bene, anche se la condizione di allegri scriteriati di sinistra, non del tutto inquadrati e inglobati nel sistema non era niente male. Ma si sa: con l’avanzarsi (sigh!) dell’età le cose belle e spensierate prima o poi finiscono e ci si ritrova a dover fare gli adulti, in un modo o nell’altro.
Nel particolare, quelle rate me le sarò pure trascinate per ben tre anni ma ne valeva la pena, assolutamente. In quei giorni magici casa mia si trasformò in una curva macchiata con tinte di tricolore come se si fosse proprio in Spagna, un luogo ambitissimo anche popolato di spettatori che definire variegati è forse eufemismo. C’è passato anche qualche calciatore a carriera finita e futuri giornalisti, musicisti, manager e personaggi strani, che magari poi non abbiamo visto più. Ricordo, ad esempio, la fidanzata del nostro carissimo Buro (acronimo di burocrate, che lo era davvero al soldo della Fgci) alias Rocco Cotroneo – a proposito di grandi giornalisti negli anni a venire – che di calcio (la fidanzata, intendo) non gliene impippava proprio niente e appena entrata in casa mi chiedeva immancabilmente se poteva farsi un bagno; l’abluzione approfondita e totale durava primo tempo, intervallo e secondo tempo, e magari finiva giusto in tempo quando sfollavamo tutti per andare a farci la birra della vittoria. Ancora, non mancava il “finto-esperto” che per darsi un tono sparava memorabili e smascherabilissime cazzate calcistiche, diventando di conseguenza subito il collettore di ogni presa per il culo da chi (quasi tutti gli altri) di calcio invece masticava, e anche tanto. Non posso nemmeno dimenticare quell’amico emaciato del Claudio che parlava sempre di medicine da inghiottire in gran quantità, e lo faceva anche fra un’azione e l’altra degli azzurri rimediando occhiatacce e commenti da funerale, e che aveva una accompagnatrice della quale nessuno di noi si ricordava il nome. Fu proprio durante il Mundial che la tipa in questione – anonima che più anonima non si può – compiva gli anni e allora tutti insieme le abbiamo cantato gli auguri in coro, ma al momento di metterci il nome e dire “tanti auguri a…” abbiamo detto tutti “mmmmmm” perché nessuno sapeva assolutamente come si chiamava: roba da Fantozzi allo stato puro.
In quei giorni sono nati anche amori, e poi finiti, e pure solo storie di sesso come si può immaginare e come da regola poteva accadere in ogni momento atto a favorire la “socialità” soprattutto nel post ’77 – ma anche prima e anche dopo, che la voglia di scopare è azione benemerita e assolutamente trasversale di epoche e di idee. Periodo magico durante il quale non mancheranno nemmeno – a giusto contraltare di quanto accennato poc’anzi – un paio di separazioni solo qualche tempo prima inimmaginabili, qualche ubriacatura di troppo (ma sempre da copione: una Rimet, val bene una sbronza), il bagno post-finale nella fontana di piazza Fontana, ma non mio: l’acqua è pur sempre bagnata, e se poi non è almeno tiepida tendente decisamente al caldo non mi smuove nemmeno una finale con la Germania. Addirittura ci sarà spazio per un equivoco enorme sul risultato finale di una delle ultime partite dell’Italia, svarione collettivo (circoscritto, scoprirò poi, quasi solo alla nostra cerchia ristretta) che poteva valere il ricordo negativo di tutta una vita pallonara. Parlo di Italia-Brasile e del momento in cui noi tutti scattammo come ossessi urlanti verso l’alto al gol di Antognoni, e non ci accorgemmo del suo – peraltro scandalosamente ingiusto, ché la posizione era regolarissima – immediato annullamento. Eravamo invece talmente convinti di essere in vantaggio di due gol a pochi minuti dalla fine, che l’obnubilamento non ci aiutò a capire che se uno degli ultimi assalti dei brasiliani, vanificati in più occasioni da parate splendide di Zoff, si fosse concluso almeno in un caso con un loro gol, sarebbe risultato letale. Anzi, io dicevo ad alta voce: “Ma fateli segnare pure, ‘sti buffoni in costumino giallo-oro, tanto due gol non faranno in tempo a farceli mai!”. Al fischio finale eravamo già per strada, e non capivamo perché la gente facesse il segno delle tre dita invece che delle quattro, e quando ce lo dissero fui lì lì per rasentare il coma.
Non posso nemmeno dimenticare un paio di trasmissioni a Radio Popolare – ero l’unico anche via etere, e ci devono pur essere registrazioni conservato a dimostrarlo a scettici e posteri, a sostenere fin dall’inizio dell’avventura di Spagna che saremmo diventati campioni del mondo, e poi l’unicissimo a vincere di conseguenza una raffica di scommesse nei confronti di un molto folto manipolo di infedeli senza fiducia! – subito dopo i gironi di qualificazione, condotte da me, Sergio Ferrentino e Umberto Gay. Nell’occasione avevo trascinato il Claudio Sanfilippo come ospite d’onore, e la prima di quelle due volte fu anche l’occasione per l’anteprima di quello che avrebbe potuto e dovuto essere senz’altro un suo successo assoluto, assolo voce-chitarra invece rimasto incompreso sia al pubblico in studio che a quello in ascolto, e anche per questo (ne sono quasi sicuro) mai più adeguatamente da lui riproposto, quando invece secondo me avrebbe dovuto assurgere alle più alte vette delle preferenze canore a sfondo sportivo. E’ pur vero che l’impianto – nel complesso – potesse scontare qualche eccesso d’immaturità giovanile dell’autore, qualche accenno di ancora non completo dominio del “mezzo” musicale (difettucci scomparsi rapidamente con il tempo), ma le sue corpose potenzialità artistiche si intravedevano già tutte. Il titolo dell’indimenticabile nonché per me assolutamente fantastico tormentone era “Ambidestri naturali”, e il refrain andava a fare rima con “… solo gol e niente pali”, arrivando anche ad un trionfale finale improntato all’autentica poesia: “… firmiamo i seni delle figlie di Bearzot”. Giuro, non ho mai avuto il cuore di andare a scoprire se Bearzot le avesse davvero delle figlie che potessero dimostrarsi all’altezza di un’immagine sì lirica, così come non ho mai chiesto al Sanfilippo come cazzo gli fosse venuta in mente: ascoltato il ritornello la prima volta, la bocca mi si è aperta in un “oooooooohhhh” di stupore silente, capace ancora adesso di riproporsi immutato se occasionalmente rispolverato dalla memoria.
Quando si spensero le luci su quella magnifica vittoria azzurra si può ben dire che fra me e il qui co-autore siano rimaste ben vive e accese quelle della nostra amicizia, che ne è uscita addirittura rafforzata e rinvigorita da una sana rivalità stracittadina, mai venuta meno a tutt’oggi, quasi trent’anni più tardi. Se noi due siamo qui, adesso, tutto è partito proprio da quella via Guerrini in versione Mundial.