Volutamente, a parte qualche post sui social ai quali sono stato costretto da circostanze ineludibili, non ho scritto niente di particolarmente esteso sul Mondiale. Non lo farò neanche adesso, ché poi certe cose bisogna metabolizzarle perché non rischino di diventare pensieri buoni per l’ammasso, e a me è già successo qualche volta. Quindi ora poche parole, e poi magari ci ritorno su, se a qualcuno interesserà mai. E comincio dalla fine, quindi dalla finale.
Diciamo che nell’occasione parteggiavo “naturalmente” per l’Argentina, ma un Mondiale giocato dai germanici così alla grande e i loro festeggiamenti post-partita – composti ed urbani – mi hanno tramesso l’idea di qualcosa finora mai visto e di veramente bello, capace quasi di riconciliare con l’immagine di un calcio che può (anzi: deve) essere solo pulito e festoso. Fra l’altro, vissuto da loro senza indigestione di tatuaggi né di capelli tagliati alla maniera di un Montezuma decerebrato, con le loro mogli e i figli che non sembrano personaggi da telenovela di quart’ordine. Una splendida avventura collettiva dove alla fine ha vinto la squadra nel suo insieme e non il singolo, dove complessivamente si “respira” aria di organizzazione e serietà, e quasi niente trasuda di laido e fastidioso. Lo so, adesso qualcuno mi darà del rincoglionito filo-tedesco e merkeliano, e allora confermo: forse lo sono, sì, ma al massimo solo rincoglionito, perché il resto non mi tange. Pensavo anche che l’Italia potesse battere l’Uruguay, quindi guarda un po’ te se ormai non ho mollato del tutto il cervello…
Per il resto, frames sparsi. L’immagine più bella del Mondiale, per me, è il colpo di testa di Van Persie. La più brutta, il morso di Suarez. Quella triste: la faccia di Messi quando ritira il premio come migliore calciatore. Quelle insopportabili: i bambini – brasiliani e argentini – che piangono: ridotti già a dei tifosi improbabili (e chissà che altro diventeranno, una volta raggiunta la maggiore età). La speranza: non vedere più la faccia di cazzo di Blatter. Comunque, il mondiale è un appuntamento da sballo, e va bene ogni quattro anni, sennò diventa routine e finisce tutto: l’attesa, il pathos e anche l’indigestione piacevole di momenti pelotari. Che noi, anche per quello si vive.