Da quando Olga si è fatta parecchio male alla schiena – era marzo, ormai – non la facciamo più uscire sola. Il problema nasce soprattutto la mattina: dopo colazione, come se niente fosse, da quel dì ormai lontano si veste comunque di tutto punto e proclama: “Io esco!”. Noi la blocchiamo, le spieghiamo che non può perché è pericoloso scendere in paese – e soprattutto salire – se non accompagnata, e mia suocera, immancabilmente dice: “Ma così mi fate diventare vecchia più in fretta!”. Io allora le propongo di fare la strada insieme, e lei – molto di malavoglia – accetta.
Nella discesa da qualche giorno mi offre il braccio, ma solo “perché ci sono i sassi”, e insieme contiamo tutti i gradini che incontriamo ad alta voce, come due bambini un po’ sciocchi ma parecchio divertiti. Nel tragitto – breve, saranno sette minuti a passo lento – abbiamo sempre i nostri discorsi fissi da sciorinare, che si ripetono a rotazione. Per esempio, fra i più gettonati c’è quello in cui ripassiamo ad alta voce la canzone che, noi due in coppia, presto metteremo su youtube e che (son certo) spopolerà: è “Sola me ne vò per la città”, voce sua e musica mia a suon di pernacchie sberleffi alla fine dei refrain; immancabilmente, ride come una pazza e chiosa: “Ci prenderanno per scemi!”, e c’è da scommetterci che avrà ragione. Oppure, dopo i saluti ai villici incrociati sul percorso, quando lei sentenzia: “Ma questi chi sono? Non sono di Nerola, io non li conosco!”, e io le rispondo: “Sono di Nerola, invece, solo che magari li conoscevi da piccoli, adesso hanno settant’anni e tu non li riconosci più…”. E Olga: “Come settant’anni? E io quanti ne ho?”. “Novanta, a novembre”. “Non scherziamo, eh? Adesso faccio il conto…”. E poi, dopo averci pensato uno dei pochi minuti che la strada ci lascia ancora a disposizione, aggiunge: “Hai ragione, ma non lo dire a nessuno, però…”. Stessa cosa, quasi, quando incontriamo le sue coetanee, che la salutano e abbracciano anche. Io: “Come si chiama quella, che ti conosce così bene?”; lei: “E che ne so, è una vecchia, si sarà sbagliata…”. “Ma se avrà la tua età…”. “Smettila di dire stupidaggini! Non vedi che è una cupeda?”, termine che si può tradurre, più o meno ed vitando le volgarità, con “instupidita”. Grande attenzione anche alle macchine parcheggiate (“Una volta c’erano solo quella di mio padre e del sindaco, adesso non si capisce più niente”), ai nuovi abitanti italiani (“Certo, con quello che costano le case a Roma, vengono tutti qui!”) e a quelli immigrati (“Senti che lingua parlano: non è nerolese, e neanche montoriano”), infatti è rumeno o al massimo albanese.
Arrivati in “centro” si va a prendere il caffè: io la lascio seduta all’ombra di un tavolino, poi le servo l’orzo e mi allesso la seconda svapora della giornata senza che Igea (visto che ancora è assente) mi rimproveri perché fumo; lo faccio giusto nel tempo rimasto prima che lei arrivi in macchina così ho già schiacciato il corpo del reato, che è meglio, molto meglio. Igea si unisce al caffè e al minimo cazzeggio che ancora ci concediamo: magari sul tempo, sulle medicine da prendere e a quello che manca per pranzo. In questo lasso di tempo le divagazioni esterne sono “a sorpresa”: si saluta e si scambiano quattro chiacchiere con qualcuno (in genere gli amici del “nostro” ristorante), se ci sono da prendere le sigarette ci si attarda un po’ di più mentre io parlo con Marco (soprattutto di calcio, e nel caso di quanto – per lui – è infame Lotito), o magari lo fa Igea con la signora ucraina del mercato che ha delle camicette “bellissime, che costano niente”, ma dev’essere venerdì. Poi, lenta passeggiata fino al giornalaio poco lontano, per l’immancabile suo Messaggero, che Olga leggerà pagina per pagina (come fa da almeno cinquant’anni) senza tralasciare niente; soprattutto i programmi tv, tanto che poi stacca quella pagina e la conserva fino al giorno dopo, anche se il palinsesto della giornata lo fanno altri ma va bene lo stesso.
Finito l’excursus quotidiano, mia suocera scopre con piacere (!) che Igea ci ha raggiunti in auto e allora ci può riaccompagnare fin su, a casa, che “così non devo camminare in salita, con questa maledetta schiena è meglio…”. Appunto. Da qui in poi, rientrati, comincia l’altra parte della giornata di Olga, quella da vivere (spesso insieme) fino a che resta vivo il giorno: sempre splendidamente uguale e proprio per questo anche del tutto diversa, e sono certo si capisce cosa voglio dire. Ed è bella, bellissima anche quella porzione di vita trascorsa insieme. Ma questa è un’altra storia, che tengo ancora per un po’ sospesa, prima di scriverla e regalarla – anche lei – ai tasti eterni del mio pc.