(da Troppa nebbia nel cuore di Tiziano Marelli, Edizioni dEste. In prima versione, e-book, da giovedì 10 marzo 2016)
(…) In eredità il mio papà mi lasciava una macchina con alcune rate ancora da pagare (era un’Alfasud blu, un polmone quasi inguardabile che ingollava benzina più di una petroliera), una libreria (ricchissima e fantastica in termini di oculatezza e varietà nelle scelte) che da allora mi porto sempre appresso dovunque traslochi, qualche raro ricordo di film visti insieme al cinema (anche una serata al Circo della Repubblica Popolare Cinese ospitati in tribuna d’onore con tanto di accompagnatrice strafiga in livrea, e tutto torna ancora un po’ di più), la memoria di alcune serate passate allo sferisterio di via Palermo dove si giocava alla pelota basca (con il poker, l’altro suo modo di farmi amare il rischio e imparare a dominarlo: di questo non gli sarò mai grato abbastanza). Momenti, questi ultimi, ai quali qualche volta seguiva una pizza che sapeva di straordinario, io e lui da soli, in un locale di piazzale Istria, sulla via del ritorno a casa. Ancora, una serie di precoci lezioni di educazione sessuale (avrò avuto dieci anni: sarebbe presto anche di questi tempi, figuriamoci quasi cinquant’anni fa), due sole crocchiolate di botte epocali perché non avevo fatto i compiti delle vacanze estive come avevo promesso il giorno prima (recidivo: successe per due anni consecutivi, e la seconda volta sapevo benissimo a cosa andavo incontro), il trauma di averlo visto una volta prendere a schiaffi mia madre, alcune discussioni politiche bellissime però in un crescendo di disaccordo fino alla “rottura ideologica” per scoprire, io oltremodo felice, di potermi finalmente considerare più a sinistra di lui. E poi, il ricordo dei tiri in porta che mi faceva sulla spiaggia di Silvi Marina, le tante estati che ci siamo andati insieme e che mi hanno insegnato ad amare quel posto in modo viscerale e per sempre bambino. L’amore per la guida perché “viaggiare è sempre meglio che arrivare”, e quello ancora più grande per l’Inter, unica squadra del cuore possibile, alla quale – senz’altro con una punta d’esagerazione, ma forse no – “bisogna essere sempre fedeli, più che a una donna”. Infine, un porta-banconote d’argento a forma di ferro cavallo, che dal giorno del suo addio ho fortemente voluto, e che porto sempre con me.
Forse è troppo poco, o invece tantissimo. Oltre a questo, naturalmente, mi resta il racconto incredibile e infinito che mi ha fatto faticosamente quella sera, verso la fine della sua vita: un’eredità pesante da portare e sopportare, e rispetto alla quale magari non riuscirò mai ad andare davvero oltre del tutto.
Il timore era ed è fondato, ed è giusto che sia così. (…)