Ho sempre amato il poker. Un amore trasmesso da mio padre – come ho scritto nel mio ultimo libro – che ne era un cultore e me lo ha insegnato (bontà sua, o forse no) fin dalla prima adolescenza. L’ho sempre amato, e da quando non sono a Milano mi manca da morire. Da dove sono adesso, prima a Roma e poi in provincia, non ho trovato praticamente nessuno che dedicasse almeno una serata della settimana – di solito, nella mia città, era il giovedì – a questo gioco splendido. Non solo un giorno fisso, o magari ogni tanto quando poteva capitare: praticamente non è successo mai. Sarà un fatto di cultura, ché siamo diversi anche in questo.
Ho provato un paio di volte online, ma ho lasciato perdere subito perché è altra cosa guardare in faccia chi ti sta di fronte. Sono per il poker assolutamente classico: il Texas Holdem o giù di lì mi fa semplicemente passare immediatamente la voglia di scoprire le carte virtuali. Io invece le devo sentire fra le mani, odorare, spillare una a una, capire già dal primo abbozzo d’inchiostro che mi si apre nell’angolo la carta che ho, e quelle che posso avere scoprendole tutte.
In verità, qualche volta è capitato di giocarci durante le feste di Natale, con i parenti di mia moglie. A questa latitudine è abitudine tuffarsi nel gioco in quelle settimane, per i giochi di carte più disparati (e parecchio d’azzardo anche in quei casi) o a tombola (sigh!), ma il poker è pochissimo praticato. Ho tentato di introdurlo in questo contesto parentale, per un paio di anni ci sono riuscito, poi hanno deciso che con me era meglio lasciar perdere. Ma mica potevo (appunto) perdere per far sì che ci si affezionassero: io a poker gioco per vincere.
Nelle serate milanesi vincevo e perdevo, ma quello che contava di più era l’adrenalina, e se anche alla fine (magari a notte fondissima) ci rimettevo contavo già di rifarmi la settimana successiva, così diventava una dolce ma serrata attesa, e l’appuntamento si rinnovava più forte della volta prima.
Tavolo verde, possibilmente quadrato, quattro giocatori e non di più: in cinque già lo considero gioco spurio che non fa per me, né per il poker stesso. Eravamo in una decina, a rotazione, che ci ritrovavamo, in quei giovedì. Qualcuno si è trasferito (come me), qualcun altro se n’è andato troppo presto; Primiano soprattutto, che era il più freddo e – forse, anche proprio per questo – il più bravo di tutti noi. Fumo libero, e per me anche whisky: potevo berne senza farci caso (e così, spesso, la quantità era notevole), ma non perdevo mai la necessità che ci voleva per mantenersi lucidi; anzi, forse proprio questo minimo ondeggiare mentale mi obbligava ad un’attenzione maggiore unita ad una giusta dose di fantasia creativa, che nel caso – se non è esagerata e scriteriata – non guasta. E poi, senza sigarette e whjisky, per me non era (non è) poker. Che – forse mi ripeto – dev’essere classico, che ammette solo un giro di telesina (o teresina, si può chiamare in entrambi i modi) con massimo una “vela” al centro quando qualcuno fa appunto poker o scala reale, quest’ultima il sogno di tutti i giocatori che capitava non di rado, ma ancora di più. A quel punto partiva un giro intero di carte parzialmente scoperte – la telesina, appunto – e lì la tensione saliva a mille: mai più che in quei momenti adoro “sentire” l’emozione che pervade tutto l’intorno. Spiego meglio: nella telesina si scoprono le carte una alla volta, tenendone però sempre una coperta; così, si può vedere il gioco degli altri, e si decide o meno di rilanciare ad ogni giro. Alla fine, si scopre la carta centrale e si fa la puntata finale, che se non si ha sangue freddo e cuore forte può essere destruente per animo e portafogli.
In questo caso il ricordo più incredibile che ho conservato non è per una serata sulla terraferma leombarda, ma una nottata durante una crociera sul Nilo. Si era quasi alla fine del tour e con altri viaggiatori italiani incontrati nell’occasione avevamo deciso di giocare, e a un certo punto è scatatta proprio la partita a “carte scperte”, e quando arriva quel momento – appunto – non puoi nascondere niente, se non la determinazione ad andare fino in fondo. Bene, a un certo punto siamo rimasti in due: il mio avversario aveva un tris scoperto (se non ricordo male, era di donne), io una doppia coppia massima: assi e re. Un’altra regina era già uscita, quindi l’avversario non poteva fare poker. Era uscito anche un altro asso, quindi potevo solo incastrare il full con il re mancante (chi capisce di cosa sto parlando, non ha bisogno di ulteriori spiegazioni) eventualmente rimasto coperto nel mezzo del tavolo (la vela, appunto, che si scopre alla fine). Ricordo che il comandante della nave era venuto a vederci. Musulmano, quindi non certo portato ad approvare il gioco d’azzardo, si era invece appassionato in maniera spasmodica a quel giro di carte a dispetto dei dettami della sua religione e lo dava parecchio a vedere agitandosi, in piedi dietro di noi. Io avevo rilanciato per un finale pesante, il mio avversario tentennava e lui allora intervenne dicendo che Allah non poteva aver messo sotto quella carta ancora coperta un altro re, e che io non avrei vinceto. Quindi si mise ad incitare il mio dirimpettaio ad accettare il rilancio. Io, con calma, gli dissi allora che se era così sicuro della benevolenza del suo Dio poteva partecipare anche lui a quel momento finale: bastava mettesse sul piatto l’equivalente del mio rilancio, 300 dollari; se avesse avuto ragione, avrei onorato la perdita anche con lui. Non ci pensò un attimo, corse via e poco dopo tornò con un fascio di bigliettoni verdi, 300 dollari giusti giusti. Scoprii la carta, ed era proprio il re mancante, come “sentivo” dal primo momento che si era palesata quella possibilità. Il comandante sbiancò, poi proruppe in una serie di frasi in arabo, ad alta voce: una sorta di litania, lamentosa e lancinante. Non seppi mai se si trattasse di prgehiere o di imprecazioni, ma tant’è: restare laici solleva quasi sempre dal rebus connesso a questo tipo di accadimenti. Una “mano di poker” indimenticabile, mi si creda.
Ho sempre amato il poker e continuerò a farlo anche immaginando di poter tornare a giocarci ancora con regolarità, prima o poi. L’adrenalina di allora c’è sempre ma da allora sa aspettare e resta in un angolo fredda ma pronta a rinnovarsi, come si conviene ad ogni giocatore vero. Di poker, naturalmente.