Non c’è più – e sembrano ormai secoli – lo speaker che esalta “Bulova, l’orologio dell’era spaziale”, oppure il “Motel Siesta”: modalità discreta, questa, per indirizzare gli amanti clandestini sulla strada giusta del loro peccare senza urtare le coscienze bigotte, che allo stadio certo non mancavano. Figurarsi gli “Estintori Meteor” (una volta, a Rho, ci sono passato davanti a quella fabbrica, e ho provato un brivido, riuscendo anche a sentire il profumo dell’erba del campo), che era il preannuncio alla lettura delle formazioni, seguito da un silenzio assolutamente religioso: quello, per me bambino, era il momento più emozionante, anche se sapevo – agli albori del mio tifare nerazzurro – che gli undici erano sempre quelli, cominciando da Sarti per finire a Corso, come da tiritera rassicurante imparata a memoria da intere generazioni di amanti del calcio, interisti e non.
Non ci sono più queste cose da nostalgia che ti facevano anche immaginare e sperare di incrociare la faccia del fortunato incaricato per anni di ripetere in un microfono – che non è difficile pensare grande come un megafono – le piccole-grandi cose che accompagnavano all’evento in programma a San Siro quella domenica, che sapevi immutabili e guai se non lo fossero state, a corollario di quello che per anni e anni è stato il momento più bello della settimana, appunto la domenica pomeriggio e alla stessa ora non funestata da anticipi, posticipi e astrusità del genere: si giocava tutti alle 15, si ascoltava anche dentro quel catino da sballo visivo (che aveva solo due divisioni: i distinti e i popolari; la tribuna anche, ma la si guardava da lontano, come fosse irraggiungibile e blasfemo solo agognarla) “Tutto il calcio minuto per minuto”, che cominciava in contemporanea al secondo tempo, e se arrivava la notizia che il Milan o la Juve perdevano si levava un coro di gioia, comunque contenuto, ché gli eccessi di oggi non si riuscivano nemmeno a pensare, così come immaginare di avere un cellulare per fare un selfie che mi riprendesse con uno specchio di prato sullo sfondo.
Stavolta me lo sono proprio fatto il selfie in quel modo, nel quasi silenzio di uno stadio ancora vuoto: “ai mei tempi” ci si andava almeno due ore prima, e così ho fatto anche questa volta, quella del ritorno dopo anni, in occasione di Inter-Genoa. Due ore prima di adesso equivalgono a un quarto d’ora di oggi: all’una ero dentro, già al mio posto accompagnato da uno steward (pensa te!) e in tutto quello spazio saremo stati un centinaio di spetttatori, evidentemente gnorri al par mio oppure ultras (ci sono ancora!) che la partita cominciano a viverla di notte, e all’alba sono già pronti per mettere i loro striscioni all’interno. Invece dello speaker degli anni andati ora va a palla “Radio Italia Solo Musica Italiana” fin poco prima del fischio d’inizio e i timpani, semplicemente, si spaccano. Mi domando chi ci guadagna, oltre che l’Amplifon nei giorni successivi, ma come già si sarà potuto evincere fin qui, sono un nostalgico e maturo (anche digitale, faticosamente: il selfie e la condivisione sui social che ho poi portato a buon fine correttamente lo dimostrano). Davvero, per quella musica sparata a mille qualche tornaconto ci sarà senz’altro anche per i medici specializzati in problemi uditivi, e poi quelli che ci vanno da poco, nel mio San Siro, si saranno abituati e non potranno farne a meno. Io sì che avrei potuto, ma da sempre sono minoranza, e anche questa è storia.
Comunque, nonostante la musica che fa traballare anche le tribune le due ore d’attesa sono corse via abbastanza veloci, impegnato com’ero a bearmi del momento, a vedere la gente che entrava (sempre più a frotte, appunto proprio a ridosso della partita), a risentire il profumo del campo (anche se per metà è sintetico la brezza arriva lo stesso), e a godermi il riscaldamento dei calciatori, anche se quando entrano in campo adesso la liturgia è tutta diversa da quella che ricordo io, e ho pensato che anche da ragazzino dopo un allenamento prepartita del genere sarei schiattato all’ingresso degli spogliatoi. A fianco di ogni poltroncina viene posato un cartoncino ripiegato a libro: speaker attuale e scritte a carattere cubitali sui tabelloni elettronici a bordo campo (una volta erano fissi, che te lo dico a fà?) hanno spiegato che al momento della partenza dell’inno “Pazza Inter amala” tutti dovevano alzarli e cantare a squarciagola la canzone fino al fischio d’inizio “per sostenere la squadra”. Ho pensato che volevo proprio vedere quanti pirla avrebbero mai fatto una cosa del genere, e dopo tre secondi delle prime note ero lì anch’io con il cartoncino in aria a cantare, e alla fine mi sono pure commosso: quindi, pirla autocertificato in pieno. Siccome i cinesi non buttano via niente, durante la partita lo stesso cartoncino doveva essrere piegato (i bordi erano già stati predisposti) e diventare una sorta di ventaglio da picchiare sulla mano, così si trasformava in un battimani molto più rimoroso e incessante. Ho fatto anche questo, anche se da applaudire c’è stato davvero poco, in 90 più recupero.
La partita è Inter-Genoa: una noia mortale a dimostrazione della pochezza delle due squadre, ma tant’è: a tre minuti dalla fine ci ha pensato D’Ambrosio con una zuccata da calcio d’angolo, e va bene così; è proprio anche giocando da schifo ma vincendo per il rotto della cuffia che si arriva in fondo alla grande. Nella mia storia personale, questo era il terzo Inter-Genoa a cui ho assistito: gli altri due sono incontri finiti 0 a 0, e sembrava dovesse essere così anche stavolta, D’Ambrosio non permettendo. Per non sbagliare sono andato a guardare gli annali. La prima, mi ricordo benissimo, capitò la prima domenica d’austerità derivante dalla crisi del petrolio, parliamo quindi del 2 dicembre 1973. Praticamente, si andò a San Siro a piedi, ed era una compagnia di amici dell’antonellazanca, uno di loro antipaticissimo e pure tifoso genoano: si chiamava Carlo (come dimenti…carlo!) e con i rossoblù giocavano Rosato e (abominio!) Mariolino Corso, appena emigrati da Milano. Faceva un freddo cane e ricordo solo un colpo di testa proprio di Corso: si vede che di usare il mancino per bucarci non ci credeva potesse succedere neanche lui, così abbozzò un passaggio facile facile al portiere e nessuno si fece del male, men che meno al cuore. La seconda che vidi contro i rossoblù fu il primo novembre 1981 ed ero addirittura in campo come fotografo del tutto abusivo, grazie al mio amico Gianni che era lì per l’Inno-Hit, allora sponsor ufficiale della suadra: non gli sarò mai grato abbastanza per il regalo. Mi ricordo che alle squadre schierate in campo feci finta di scattare centinaia di foto (invece furono 30 in totale, e molto venute malissimo) dalla macchinetta poco professionale che portavo a tracolla, soffermandomi su Bergomi che aveva esordito da poco e rispondeva al mio cliccare con molta disponibilità e addirittura emozione. Ricordo anche che indugiai nel cerchio di centrocampo rifiutandomi quasi di uscire, e Altobelli che era pronto al calcio d’inizio aveva l’aria di chi voleva prendermi a calci me invece che il pallone, finché me la diedi letteralmente a gambe. Quando poi sviluppai il rullino le immagini erano venute tutte mosse, comprese quelle fatte allo Zio. Si salvò qualcosa di Beccalossi (e si sa quanto per questo posso essere grato al buon Dio) e anche altro poco da dietro la porta del Genoa (a difenderla c’era Martina, un ex), ma non me ne fregava niente: chi poteva dire, fra tutti i miei amici, di aver mai goduto di un privilegio del genere? Quindi, il pareggio a reti inviolate mi fece un baffo, al contrario dei sogni che feci nelle settimane a venire, in ricordo imperituro di un avvenimento straordinario.
Da quando me ne sono andato da Milano i ricordi di partite a San Siro sono tre: un derby poco prima di andarmene per venire a Roma (perso, rete di Kaladze nel finale) che mi sembrò un addio alla mia città, ed era il 2006; la partita delle “manette” di Mourinho contro la Sampdoria (fine febbraio 2010), e adesso questa partita con il Genoa. L’ho presa un po’ come parabola segno dell’inizio della fine rispetto alla lontananza “fisica” dalla mia città e dalla mia squadra del cuore, spero fra neanche molto tempo a venire. I segni (come i sogni e i ricordi) sono molto importanti, si sa.
Per tornare a casa dal mio San Siro adesso non è più necessario prendere il tram in piazzale Axum, oppure (come facevo io) andare a piedi fino in piazzale Lotto e da lì metrò o bus. C’è la linea viola che ti raccoglie appena uscito e ti scarica un po’ dovunque, traversando Milano da un capo all’altro in tutta la sua lunghezza. Anche qui un po’ di romanticismo se ne va, ché la corsa all’entrata di quel capolinea ti distoglie dal panino con la porchetta e dalle chiacchiere del dopo partita con altri come te che nemmeno conosci ma sai che sono dello stesso sangue tuo (entrambi erano il mio dopo-partita ideale), ma direi che è più comodo anche se asettico, e allora sorvolo, anche perché in ogni caso San Siro – il mio stadio di San Siro: se ci ho anche scritto un libro con il Sanfi rossonero a testimonianza della mia fedeltà imperitura ci sarà pure una ragione, no?- è ancora lì, non lo butta giù nessuno e l’Inter a giocarci dentro c’è sempre. Si è dei pazzi a non amare la mia squadra pazza, anche cantando e sventolando – oppure no – cartoncini di proprietà cinese.