Quasi una settimana di vita in una casa di ringhiera in un quartiere milanese leggendario come l’Ortica: alla (ri)scoperta di un mondo incredibile che mi ha fatto tornare in un lampo ai tempi dell’infanzia quando ci abitavo anch’io in una ringhiera, a Niguarda, solo pochi chilometri di distanza. Un tuffo in un passato che credevo non esistesse quasi più – ormai “imborghesito” come sono, doveroso ammetterlo – quando invece doveva rimanermi dentro in maniera indelebile, e che dopo questa parentesi – troppo breve e fuggevole – non farò mai più uscire da lì. Grazie alla vita, che mi ha dato questa possibilità: una sorta di bagno d’umiltà, condito da episodi inaspettati, e per questo bellissimi.
Arriviamo di sera, io e Igea, con un valigione di quelli che non dovrebbero più accettare nemmeno sui voli intercontinentali tanto è ingombrante, e tralascio sul peso: non “viaggiavamo” insieme da anni, e possiamo farlo (con grande tristezza) ora che mia suocera Olga non c’è più; quindi, confusi e tornati inesperti, ci abbiamo ficcato dentro di tutto per non farci mancare nulla, che invece ci mancherà: abbiamo esagerato su alcune cose e ce ne siamo dimenticate altre. Ci sta.
Mia moglie non mi aveva detto che erano tre rampe di scale infinite da fare a piedi, e io nemmeno glielo avevo chiesto, convinto dell’uso ormai universale dell’ascensore, pirla che sono. Li devo fare io trascinando l’enorme fardello e smoccolando in silenzio dopo ogni gradino superato. Arrivo stremato, e lei dice che è colpa delle sigarette: “Vero!”, approvo, e ne accendo subito una franando a terra davanti alla porta della casa che ci ospita lasciata in gentilissimo uso da Giuliana, un’amica che proprio in quei giorni è via.
Assieme al fumo respiro anche gli odori che mi arrivano dall’intorno, da sopra e sotto (i piani sono cinque), e mi tornano subito alla memoria quelli che mi assalivano ogni volta che da chierichetto andavo con il prete per le case in occasione delle benedizioni natalizie e pasquali: odori forti, di sugo e vita. Solo, in questo caso, la varietà è più composita, direi multietnica: opportunità (non problema, per me) che tanti anni fa non potevano arrivare al mio odorato poco più che bambino. Mi è sembrato qualcosa di struggente, ma anche evoluto. Non mi viene in mente altro che scrivere evoluto, anche se so benissimo che più della metà dei miei connazionali mi darebbe dell’idiota buonista. L’impressione è che sembriamo soli, nella notte, ad armeggiare lei e a fumare io, vicino a quella porta, ma che soli non lo siamo per niente. E ho ragione.
La mattina, quando mi sveglio, in genere esco proprio per fumare la prima sigaretta insieme al thè, sul balcone di casa. In questo caso il balcone è la ringhiera e lo faccio paro paro anche stavolta, pur se l’orizzonte e il contesto sono diversi. L’esordio è inquietante: sento una voce da un piano superiore gridare a squarciagola: “Polizia, chiamate la Polizia! Delinquente, mi hai rovinato, vattene! Aiuto, aiuto!”, un ritornello allarmante ripetuto più volte. Resto basito, anche per il fatto che non succede niente: la gente che sale, scende o che è nel cortile non batte ciglio. Tre bambini (due maschi e una femmina) escono in fila indiana da una porta del secondo piano, seguiti da una mamma con velo; mi vedono e mi arrivano quattro “Buongiorno!” che si sovrappongono alle urla di richiesta d’aiuto e che anche a loro non fanno nessun effetto. Rispondo quattro volte nello stesso modo, poi rientro e dico ad Igea quello che ho sentito: “Chiamiamo la Polizia, facciamo finta di niente e ce ne andiamo veloci prima che qualcuno ci accoltelli sulle scale?”. Dopo un po’ le richieste d’aiuto finiscono, e tutto torna come prima, casomai fosse successo qualcosa. Ce ne andiamo un po’ preoccupati, ma forse era solo una televisione accesa che trasmetteva un film ambientato in una periferia qualsiasi.
Torniamo a pomeriggio inoltrato, solita sigaretta mia sul ballatoio, e noto una signora che mi fissa dal quinto piano; lo faccio anch’io, e lei, dopo un po’: “Mi scusi, non per farmi gli affari degli altri, ma lei abita qui? Perché mi dispiace se la signorina che stava lì se n’è andata: era così gentile!”. No, la rassicuro io: continua ad abitarci, ma non c’e e noi siamo suoi ospiti. “Ah, meno male – mi fa – e mi scusi ancora. Ma lei è il padre?”. Scuoto la testa, e non so se ridere o piangere, perché io e la legittima inquilina non siamo coetanei, ma poco ci manca. Mi consolo pensando alla distanza ottica di due piani e qualche metro in linea d’aria, e con il fatto che la signora è parecchio avanti con gli anni, quindi forse di vista debole. Rientro, e cerco di non pensarci più. Uscendo per la cena, ai piedi delle scale troviamo altre due signore che ci fermano: “Abitate qui?”. Si devono conoscere tutti nel caseggiato, e noi siamo una novità. Dopo la spiegazione ci salutano cordialmente, con le due signore felici di aver scoperti dei finti intrusi. Mi convinco del tutto che sono entrato a far parte della vita della ringhiera anche se solo a tempo, e un po’ mi dispiace.
Il giorno successivo è il 25 aprile. Scendiamo e non sapevamo di essere al centro-centro dell’Ortica: proprio a due passi si tiene la commemorazione dell’anniversario della Liberazione. Il quartiere dev’essere stato un serio avamposto della lotta partigiana cittadina perché la partecipazione è larga e per niente scontata. Proprio lì intorno è pieno di murales che ricordano l’evento (e non solo quello: artisti che l’hanno celebrata in musica fanno bella mostra sui muri con le loro facce e le frasi delle canzoni che l’hanno resa famosa, nel dopoguerra cittadino) e noi ci accodiamo volentieri. Sarà una specie di prologo alla manifestazione cittadina alla quale partecipiamo nel pomeriggio: manco da dodici anni l’appuntamento causa trasferimento di città, e non ci rinuncerei per niente al mondo. Infatti, sarà una giornata bellissima, dal punto di vista della testimonianza antifascista, e la metterò nel cassetto nel ricordi come preziosa.
Dopo il primo giorno alla Bella Aurora in via Castelmorrone per un altro pezzo di vita ritrovata, decidiamo che la colazione la facciamo in quartiere per le mattine che ci restano da passare lì. C’è un bellissimo posto proprio dietro l’angolo, la “Pasticceria Eoliana”, dove diventiamo subito clienti abituali. Tanto che la secondo volta che ci andiamo va in scena il seguente siparietto: chiedo un caffè e il signore alla cassa mi dice:
“Hai prenotato, caro?”.
Dico di no, e lui allora:
“Eh, allora siamo nei guai: senza prenotazione fanno 2 euro e 50”.
Credo che stia scherzando e sto al gioco:
“Va bene, adesso che lo so prenoto per domani. E oggi ok per 2 e 50”.
Lui, imperturbabile, batte lo scontrino proprio così, 2 e 50, me lo da e aspetta qualche secondo per l’eventuale reazione, poi dice:
“A questo punto i casi sono due: o scoppia la rissa o ci si mette a ridere. Tu cosa vuoi che facciamo?”.
Insisto, apposta: “Niente del genere, è giusto che pago il dovuto”.
E lui: “Bene, da adesso aggiungo una terza possibilità, allora. Una novità assoluta. E il caffè te lo offro io”, e non vuole i soldi.
Igea arriva poco dopo, le racconto la cosa, e lei fa:
“E adesso cosa faccio: chiedo un orzo anche se non ho prenotato e vediamo cosa succede?”. Non le ho chiesto se scherzava o parlava sul serio, ché è il suo bello e per l’ordinazione sua ci ho pensato io. Rischiava di far uscire ulteriormente dagli schemi prefissati il tipo del bar e mandarlo in confusione: sono sicuro che ci sarebbe riuscita e non era il caso.
La scena più bella deve ancora arrivare, e succede il giorno dopo. Pomeriggio inoltrato, usciamo per un aperitivo sulla Darsena – da quando l’hanno “rifatta” non ci siamo ancora stati – prima della cena a casa di amici. Scendiamo di un piano, ma poi siamo bloccati da due ragazzi che trasportano un armadio pesantissimo, tentando faticosamente di issarlo su per le scale: lo spazio è molto ristretto, soprattutto quando si svoltano le rampe. Mia moglie si lancia anche in consigli che manco ai tempi dei romani quando si issavano gli obelischi, poi si volta verso di me, mi guarda un po’ storto e sussurra:
“Hai la maglietta al contrario”. Non faccio una piega, me la levo e resto per qualche attimo a torso nudo. Voce da dietro:
“Uhella, che fisico bestiale! Signora, è suo marito? Complimenti, eh?”.
L’ammiratrice è sul ballatoio, alle nostre spalle. Stavolta non mi pongo strani quesiti sull’età e la vista della signora, anche se forse è le condizioni sono le stesse di quella che, qualche piano più sopra, mi ha scambiato per il padre di una quasi coetanea: va benissimo così. Ringalluzzito il giusto poi ce ne andiamo, non prima di altri complimenti: quelli di Igea ai due ragazzi che alla fin fine sono arrivati alla meta con quel carico incredibile. “Grazie”, fa uno di loro, e se ne va sorridendo.
A pensarci bene, sono stati tutti un sorriso, quei giorni. Da quelli dei tre bambini in fila indiana con la mamma verso scuola (ogni giorno, e anche al loro ritorno se li incrociavo) con tanto di “buongiorno” e buonasera”) a chiunque abbiamo incontrato magari per chiedere informazioni di qualsiasi tipo. Si riesce a sorridere quando si condivide la vita in poco spazio, si è curiosi e disponibili. E se qualcuno chiede aiuto e di chiamare la Polizia, magari è solo un film. Magari.
L’ultimo giorno, nel pieno del rito della prima sigaretta, esce una signora dalla porta di fianco e annaffia i fiori; con lei escono anche tre gatti, di un grigio bellissimo. Mi vedono, si bloccano e, con grande circospezione, si avvicinano per annusarmi. La signora: “Li deve scusare, ma non la conoscono. Sono sospettosi, ma vedrà che con il tempo farete amicizia”. Le dico che non ci sarà tempo perché partiamo, e lei: “Beh, la prossima volta che torna non si spaventeranno più, e si faranno accarezzare. Buona giornata!” e rientra, seguita dai gatti che comunque non tralasciano nemmeno per un attimo di seguire i miei movimenti. Sì, a questo punto mi sento a casa, e dispiace andare via.
Quando succede, scendo nel cortile per portare giù i diversi contenitori dell’immondizia e dividerli nei bidoni appositi, e lì incontro la signora che mi ha gratificato di un “fisico bestiale”. Mi aiuta a compiere correttamente l’operazione, e mi dice:
“Se capis nient, non si capisce più niente. Non è come una volta: si buttava tutto insieme e ghe se pensava pù. Ma dicono che così siamo più moderni, Mah…”.
Ne approfitto per dirle che andiamo via, ma che saremmo rimasti volentieri ancora un po’. Mi saluta così: “Tanto tornate, no? Milan l’è bela, e l’Urtiga l’è il so coeur”.
Non poteva esserci un saluto più vero e beneaugurante.
Allora: a rivederci Milano, e arrivederci ringhiera.