“Mi scusi, cerco la tomba dell’onorevole Moro, ma non riesco a trovarla da nessuna parte. Mi può aiutare?”.
Il custode mi risponde quasi sorridendo, visto da dove glielo chiedo:
“Guardi, è proprio quella, alle sue spalle”.
“Davvero? Grazie”.
Non la trovavo anche perché, oltre all’emozione che può confondere il momento, la costruzione (in mattoni rossi e assolutamente scarna, minimalista che più non si potrebbe per l’architettura sacra) si trova in fondo al corridoio laterale del cimitero, nel suo punto estremo. E’ proprio l’ultima cappella di sinistra, senza nessuna indicazione sovrastante, al contrario di tutte le altre. Ci siamo arrivati tappandoci la bocca, perché a pochi metri di distanza è in bella vista un topo morto, e la puzza invade tutto l’intorno. Il camposanto è uno di quelli classici di paese: cancello d’entrata solo socchiuso, nessun visitatore (sarà anche perché è il tardo pomeriggio) e camminamenti poco tracciati fra erbacce, tombe di famiglia, lapidi non curate e abbandonate da anni. Tutto è avvolto da un silenzio irreale, situazione che ispira un senso desolato d’abbandono totale.
Forse è giusto così, ché magari gli stanziali lì così riposano meglio.
Abito da tempo vicino a Torrita Tiberina, e sono mesi che penso di andarci, per una visita che ritengo d’obbligo. Ci vado con mio figlio Michele: per me è un viaggio nella memoria; per lui nella storia, in quella dannata storia, che conosce molto bene.
Arrivare a Torrita è compiere un viaggio strano; dalla Salaria si svolta verso le colline alte che si intravedono lontano e ci si arrampica in una striscia unica asfaltata e alberata, sempre più immersa nel buio: un insieme di immagini che rappresenta la scenografia (e anche la sceneggiatura) pian piano sempre più perfetta verso il dove e il perché stiamo andando. Mi immagino il corteo funebre ben più lento che, ormai trentasei anni fa (tanti, ne sono passati), faceva lo stesso percorso. Il silenzio doveva essere lo stesso, ma tutto il resto del contesto – non solo per quel pezzo di campagna laziale – era assolutamente diverso.
Da quell’assassinio l’Italia ne era uscita come tramortita, e per noi, da allora, tutto sarebbe cambiato.
Il paese è tranquillo e anche bello, curato. Sulla strada principale c’è un chiosco con l’insegna del “Centro di Informazione Turistica”: mi domando se è per il castello lì vicino o per quell’altro sito che voglio raggiungere, ma me lo tengo per me. Però l’informazione che avevo in mente la chiedo, e l’indicazione che ne consegue è gentile; quando mi allontano, vedo che i due dietro al vetro si danno di gomito.
Al cimitero ci si arriva dopo il classico doppio filare di cipressi che accompagna fino all’ingresso; la mia è la seconda macchina parcheggiata nell’ampio piazzale: l’altra sarà senz’altro del custode.
L’ultima casa di Aldo Moro è chiusa da una vetrata e da un’inferriata che ricorda la grata di un carcere, e se la scelta è stata casuale l’impressione che se ne ricava è invece opposta: quell’uomo è davvero passato da un carcere all’altro, e il ferro battuto e pesante che lo tiene rinchiuso – adesso per sempre – è lì per ricordarlo come meglio non si potrebbe altrimenti. Fuori, ai piedi della grata, due vasi di fiori secchi; uno è talmente minuscolo da confondersi con l’unico lumino dedicato, a fianco: doveva essere perenne, ma chissà da quanto è spento.
Guardare all’interno della stanza è difficile, soprattutto se vi si vuole cogliere qualcosa di significativo, ma è proprio la sua nudità a testimoniare quanto il nulla che vi alberga possa invece dire tantissimo. Il pavimento (di porfido a strani disegni) accompagna verso il fondo; lì è fissato un vero e proprio sepolcro, imponente e di un bianco abbagliante in maniera tale che quasi non si riesce a leggere il nome e cognome – scolpiti sul fianco – di chi è custodito. Ci riesco, e oltre a quelli non c’è altro, nemmeno una data. Sopra è stata appoggiata la foto della moglie morta quattro anni fa, e un piccolo angelo custode. Ai piedi del sarcofago, sulla sinistra, campeggia la scritta contenuta in un quadretto di ceramica posto su di un treppiede: è una lunga frase, sorprendentemente in spagnolo; riesco a leggere solo “muerto” e “Brigadas Rojas”; davanti, una grande conchiglia azzurra. Tutto qui.
Restiamo in silenzio per qualche attimo, poi chiamo di nuovo il custode:
“Senta, mi scusi ancora, ma viene molta gente… qui?”
“No – risponde-, i familiari ogni tanto, e qualcuno alle ricorrenze. Ma negli anni anche in qui giorni ne arrivano sempre meno”.
“Anche la moglie Eleonora è seppellita qui, vero?”.
“Sì, sono insieme: lei, sotto il feretro del presidente”.
Ce ne andiamo lentamente, e quando siamo fuori sentiamo che il cancello viene chiuso. Le visite, per oggi, sono terminate.
Al ritorno passiamo da Fiano Romano, e quasi sfioriamo la villa di Sabrina Ferilli, che tutti (io compreso: è una delle prime cose che mi hanno detto quando sono arrivato qui, come se quel domicilio sia da considerare alla stregua di un autentico vanto collettivo) sanno dov’è. Dicono che quel posto sia molto visitato dalla gente della zona, e non solo: macchine e moto ci arrivano anche da Roma – una cinquantina di chilometri più a nord – apposta, magari solo per passarci davanti al rallentatore.
I più temerari, davanti al cancello, lasciano anche mazzi di fiori.
Se ne vedono sempre di freschi. Naturalmente.