Fino a qualche tempo fa, la mattina, mi capitava di prendere il caffè a un bar dell’Eur (abitavo lì) seduto ad un tavolino di distanza da Odoacre Chierico. Se nome (è ben strano, ma è anche sorta di marchio di fabbrica, suo personale) e cognome in questione a qualcuno non dicono niente, si può decidere di smettere di leggere le altre righe; ma forse anche no, che può sempre essere utile, e non solo per la conoscenza del calcio, piuttosto per i momenti di memoria che possono comunque essere compresi, siano essi calcistici o di qualsiasi altro tipo. Odoacre Chierico – per la cronaca e per chi ancora non lo avesse capito – è un ex giocatore di calcio: della mia Inter e poi della Roma, di tempi ormai andati.
Quando succede che il fato si accorge di me per qualcosa del genere e mi ci tuffa, quello si trasforma in un momento in cui, in maniera assolutamente inconsapevole, ridivento immediatamente bambino. Se, appunto fin da piccolo, mi capitava per strada di incontrare un calciatore e rimanevo a bocca aperta per tanta fortuna, mi guardavo intorno per vedere se c’era qualcuno che mi conosceva e avesse poi potuto testimoniare – se ce ne fosse stato bisogno – che l’incontro era avvenuto davvero. E per un po’, solo per un po’, sembrava che la mia vita andasse viaggiando incrociata con qualche mito di quelli, magari solo il tempo necessario di pochi passi compiuti insieme o per uno sguardo suo che mi avesse fortunatamente rivolto e che poi sarebbe rimasto impresso solo dentro di me, probabilmente per sempre.
Cose del genere – l’ho scritto anche nel mio libro, “Fedeli a San Siro” – mi sono capitate quando all’oratorio di Niguarda venivano a tirare calci al pallone il lunedì (il loro unico giorno completamente libero) Sandro Salvadore o Aquilino Bonfanti, cooptati da Don Gabriele perché facessero sentire a noi ragazzi quanto quello spazio, in quell’epoca ormai lontana, fosse ancora più insostituibile. Ma, anche quando poi sono diventato più grande, la stessa sindrome da bambino basito per la visione di miti in maglietta e calzoncini (anche se per strada il vestiario loro era naturalmente “borghese”) è continuata.
Mi ricordo una volta di essere rimasto con la brioche a mezza bocca vedendo entrare nel bar dove allora facevo colazione (era il mitico Matricola di viale Romagna, a Milano) Cesare Maldini con suo figlio Paolo, da poco diventato titolare fisso in prima squadra (si parla di almeno venticinque anni fa, e comunque ero già ben grandicello), e la cosa che mi apparve più sorprendente era che facessero colazione nello stesso modo mio (cappuccino e, appunto, brioche), tanto che per quei pochi attimi mi sono sentito una sorta di atleta possibile, dimenticando che in quel periodo ero invece parecchio scosso dai danni provocati dalle almeno quaranta sigarette al dì.
O vogliamo parlare del momento felice del dopopartita, fuori dai cancelli di San Siro quando si aspettava che i calciatori risalissero sul pullman e si chiedeva l’autografo indistinto, chiunque fosse o capitasse? Bastava che qualcuno-qualsiasi di loro si avvicinasse e ci graziasse anche con grafie sconnesse e illeggibili, che comunque andava benissimo. Per dire, una volta ho avuto l’ardire di chiederlo a Paolino Pulici e un ultrà della mia squadra è partito tosto per picchiarmi come un tamburo, dandomi anche del torinista di merda senza tralasciare nemmeno di inneggiare alla tragedia di Superga: fu una della poche volte che mi capitò, in quegli anni bui, di benedire l’intervento della Polizia in soccorso.
Uno dei particolari più vividi che conservo di quei momenti era lo scoprire la tonalità dei capelli di quelli che si spingevano fino a noi per mettere uno scarabocchio su un foglietto di risulta: il castano non si coglieva nella tv in bianco e nero, e nemmeno il biondo accesissimo, se è per quello: Haller, con tanto di lentiggini, fu una scoperta assoluta. Erano momenti in cui si aveva la sensazione di essere parte di una cerchia fortunata, ravvicinata ed esclusiva; come si si avesse scoperto il mondo del calcio a colori molto prima dell’avvento televisivo a tutte tinte. La capigliatura marroncina tendente al chiaro di Sandro Mazzola, addirittura, fu una rivelazione sorprendente e inaspettata proprio di una di quelle domeniche pomeriggio.
Altre apparizioni – sparse, e assolutamente indimenticabili – negli anni furono quelle di Giacinto Facchetti (un passo imperiale, il suo) in via Durini a Milano poco tempo prima che si sapesse che era irrimediabilmente malato (a me invece sembrò, quel dì, l’uomo più sano della Terra) e, subito dopo a seguire lo stesso giorno, quella di Rivera che usciva da un ristorante di Città Studi, con panzetta inimmaginabile: avevo visto due capitani milanesi in una botta sola, e parlare di botta di culo ci sta, eccome! Ancora, Pietro Paolo Virdis, e per una ragione tutta particolare: molti anni addietro eravamo seduti in due tavoli diversi nello stesso ristorante a Milano, e solo poche settimane fa mi è sembrato di averlo incrociato sul metrò a Roma. Ma forse era solo un sosia, e in ogni caso quel “lui” – chiunque dei due fosse – era consapevole del mio sguardo fiso allucinato, visto che mi rispondeva a sua volta fissandomi, e non saprò mai chi per certo quale era l’identità di chi lo stava facendo.
La stessa sorta di sindrome di Stendhal mi ha colpito, anche se sono un po’ riuscito a contenerla non dandola molto a vedere, per tutto il tempo che ho fatto il giornalista sportivo e mi sembrava di vivere in un luna park gratuito (i bambini adorano i luna park). Sono riuscito quindi a passare quasi una giornata intera con Maradona senza dar fuori di cotenna, ma comunque pizzicandomi ogni tanto per convincermi che non stavo sognando.
Un’altra volta l’emozione era così tanta che ho bruciato con la brace della mia sigaretta – in sala stampa del Meazza (si poteva ancora fumare pure lì, e anche questo particolare testimonia del tempo assai passato) – un giubbotto a Beppe Bergomi facendo finta di niente, ché ripagarlo mi sarebbe costato almeno tre mesi di quella collaborazione (il quotidiano era Reporter) e spero che se mai leggerà ora di questo mio outing tenga conto che l’ormai eventuale reato (comunque colposo) dev’essere ormai caduto in prescrizione.
Ricordo indelebile è anche quello mentalmente incamerato in occasione del giorno dell’inizio del ritiro estivo del Milan – c’è sempre quella squadraccia sul mio cammino, in un modo o nell’altro: dev’essere un karma da reincarnazione che devo scontare – nel luglio del 1985, ultimo anno di Giussy Farina alla presidenza; entrai nell’ascensore in via Turati per salire al piano “nobile” e subito dietro di me arrivarono Paolo Rossi e proprio Paolo Maldini (una sorta di passaggio delle consegne, fra di loro) che si conobbero praticamente lì, e credo si siano stretti la mano – la sensazione era quella – per la prima volta; nel breve tragitto rimasi schiacciato sul fondo del mezzo in salita per la consapevolezza della testimonianza epocale, anche se vissuta in solitudine e che non avrei potuto raccontare a nessuno, ché nessuno mi avrebbe dato retta.
Per virare sulle confessioni tristi, tocca citare un’intervista a Evaristo Beccalossi (per me un mito irraggiungibile, e anche questo l’ho scritto più e più volte) quando era sul punto di andarsene definitivamente dall’Inter; nell’occasione feci lo sforzo immane di mantenermi professionale al massimo, ma per quello che si andava tutti noi perdendo in genio e gioia di veder giocare al pallone mi veniva da piangere: per lui, per me e per gli interisti tutti.
A proposito di Odoacre Chierico, mi ricordo anche un altro episodio che lo riguarda. Sarà stato il 1978 e stavo andando per conto del giornale dell’estrema sinistra per cui allora lavoravo, a Caorso: era stata da poco messa in funzione la centrale atomica, e qualcuno ci aveva avvisato che si era registrata una grave perdita dal reattore, che il pericolo era serio e persistente, e che la cosa era stata messa a tacere “dall’alto”. Mentre mi precipitavo sul posto con un fotografo, da Milano – Caorso è in provincia di Piacenza –, appena superato il casello di Melegnano vidi un pullmino dell’Inter che si era appena fermato alla prima area di servizio (Somaglia, se ricordo bene). Sterzai appena in tempo per riuscire a entrare nello spiazzo e mi misi dietro a quel mezzo meccanico magico ormai immobile, dal quale vidi scendere uno dopo l’altro un bel mazzo dei miei beniamini. Adesso – anche se erano ben di più – mi rivedo le figure di Bini, Oriali e, appunto, Chierico: non potevo confonderlo, con quella sua capigliatura rossa e folta. Restai lì in adorazione per un lasso di tempo indefinito, incurante anche delle lamentele del fotografo che, oltre a non fregargliene niente di calcio (era un duo e puro, e nonostante le mie richieste, non scattò nemmeno una foto ad uso e consumo che sarebbe stato esclusivamente mio), era preoccupato per il fatto che la centrale sarebbe scoppiata da un momento all’altro (!) e noi ce la saremmo persa. Naturalmente, la centrale di Caorso non scoppiò mai finché per fortuna la chiusero, e non capimmo altrettanto mai se l’allarme su quel possibile disastro sfiorato per un pelo fosse stato da considerare veritiero oppure trattavasi di bufala (tanto, chi mai lo avrebbe ammesso?). In ogni caso, come si dice oggi e allora non si diceva, non me ne sarebbe potuto fregare di meno, quel giorno lontano: il mulinare di tute nerazzurre davanti agli occhi mi aveva mandato in tale stato di catalessi e così rimasi per non so quanto tempo: i pericoli derivanti dall’uso dell’atomo non mi sfiorarono di pezza, fino al completo risveglio.
Quando ho preso l’ultima volta il caffè vicino a lui (senza potesse mai immaginare che si trattava dell’ennesima volta che lo stavamo sorseggiando insieme) con me c’era mia moglie. Guardando nella direzione di quel mito rossastro ancorché solo in parte sbiadito, ho detto a lei, a bassa voce e senza farmi notare: “Lo vedi quello? E’ Odoacre Chierico! Ha giocato tre anni nell’Inter, ed è stato anche titolare alla Roma nell’anno dello scudetto di Liedholm. Ma ti rendi conto?”. Lei ha guardato me, ha guardato lui, poi si è girata di nuovo e mi ha detto: “Va bene. E allora, che sarà mai?”.
Ho messo il broncio, e mi sono zittito. Ai bambini, quando gli si rompe il giocattolo, la giornata poi finisce per girare tutta storta.