“Sono Isabella, la moglie di Carlo. Vorrei farle sapere che ieri sera Carlo è venuto a mancare”. Accendere il cellulare la mattina presto e leggere un sms così, pur se di grande delicatezza e pudore, altroché se può funzionare da sveglia! Brutta, bruttissima sveglia, perché Carlo è (stato, ormai purtroppo) un amico vero, di quelli che restano nel cuore anche se non li senti e vedi da anni. Con lui è successo proprio così, e non mi ci era voluto molto tempo dal suo silenzio per capire che qualcosa non doveva andare per il verso giusto. Di fatto, da anni non ci siamo più visti né sentiti al telefono. Le volte che ho provato e riprovato il era staccato, oppure non rispondeva, o al massimo mi dedicava qualche sms di risposta in modalità del tutto laconica, giusto come le rare mail che mi mandava di ritorno rispetto alle mie: secche, come se a mettere mano alla tastiera non fosse lui ma una quercia che stava languendo. Perché Carlo era una quercia, di quelle robuste e solide, e per convincersene bastava ascoltarne – anche una volta sola – la voce: tonante come poche, e gioiosa e garrula anche nel pieno dei problemi che aveva; e negli ultimi anni che ci siamo frequentati erano tanti i problemi, come lo erano e sono per quasi tutti i giornalisti della nostra generazione.
Carlo è (era) Carlo Arcari, bravissimo fotografo prima e, appunto, grande giornalista poi. Per la precisione: era il “mio” fotografo, ai tempi del Quotidiano dei Lavoratori. Io e lui facevamo coppia fissa quando c’era da narrare – per iscritto e visivamente – quello che succedeva per le strade di una Milano grigia e ormai lontana. Soprattutto, descrivere gli scontri con la Polizia e con gli autonomi. Ne ricordo due in particolare, uno ciascuno per i nostri “nemici” di allora, e mentre io stavo da una sola parte della barricata Carlo andava in tutte e due. Conosceva bene sia poliziotti che autonomi, e poteva passare da una sponda all’altra senza che nessuno gli rompesse le balle, e quelle che uscivano dai suoi obiettivi erano immagini splendide, sempre da prima pagina. Ma non solo per quello eravamo una coppia affiatata: anche per le zingarate eravamo inseparabili, come quella volta che siamo andati a Milanello per tentare un’intervista a sorpresa a Giani Rivera, e invece di buttarci fuori a calci ci hanno fatto entrare nella Sala del Caminetto e l’intervista l’abbiamo fatta, corredata in bianco e nero da lui come meglio non si poteva. Gli ho scritto una delle ultime volte per chiedergli proprio se quelle foto me le ritrovava per il mio libro sul calcio che a quell’intervista dedicava un capitolo (avrei tentato di riservargli la copertina: ci sarebbe stata benissimo), ma le poche parole di risposta furono solo: “Le cerco, e ti faccio sapere”, poi nulla, e il mio allarme sul suo stato trovò certezza franca.
Carlo mi è stato vicino come nessun altro anche quando mi sono separato; ero talmente preso dalla disperazione per la lontananza dai miei figli che una mattina si è presentato a casa mia per trascinarmi via senza dirmi dove saremmo andati: la meta era un campo di golf. Era talmente assurda per noi due, quella location, che proprio per quello la presi sul serio, passando in breve dal campo pratica al green. Perché riuscissi a centrare la palla con la mazza, fu decisiva una sua dritta: “Pensa che sia la testa di qualcuno a cui la vuoi spaccare, e vedrai che non sbaglierai più un colpo”. Feci così, e da quel momento la palla cominciò a schizzare sempre più lontano. Dopo poco tempo mi feci il corredo del golfista perfetto, quei sabati diventarono un appuntamento fisso, ed era ridicolo vedere due lumpen come noi giostrare con sacca, mazze e palline a fianco di nobilastri e arricchiti d’accatto di ogni risma e genere. Sì, eravamo davvero fuori posto, e spesso lo eravamo in maniera così evidente che ci venivano a chiedere di mostrare la tessera d’ingresso, tanto non ci si poteva credere che fossimo lì. E noi poi ne ridevamo come pazzi, macinando buche su buche come se niente fosse, e mandando tutti gli altri del posto ad alta voce a fare in culo. Mi è servita molto quella terapia, ché pian piano il tempo e il verde delle distese che battevamo fecero passare struggimento e tristezza, e se questo è successo lo devo solo a lui, e anche a una sua frase, bellissima, di pietà e incoraggiamento, che non dimenticherò mai: “Visto che stai meglio? Ti stanno ricrescendo anche i capelli che avevi perso!”. Una minchiata del genere non l’avevo mai sentita, e per qualche momento ricordo di averci anche creduto: il golf come medicina per la ricrescita tricologica non l’aveva mai vagheggiato nessuno, a parte la creatività del Carlo. Invece, era stato senz’altro il regalo della sua amicizia, rinforzata in quei momenti per me topici, a farmi stare meglio, e i capelli poi sono rimasti ancora quelli: pochi, fino a quasi scomparire del tutto.
Abbiamo anche lavorato insieme per qualche mese in una società di pubbliche relazioni, e di quel periodo mi ricordo un viaggio insieme, ad Agrigento. Abbiano cazzeggiato anche lì, e mangiato pesce fresco e bevuto vino in abbondanza, tanto che i ricordi di quell’occasione trascorsa insieme sono sfumati e vaghi, giusto come possono fare i cicchetti buoni bevuti insieme alla persona giusta. E lui era, la persona giusta giustissima.
L’ultima volta che ci siamo visti è stato ormai qualche anno fa, in occasione di un mio servizio sull’Europeo dedicato a Fausto e Iaio. Gli chiesi una volta di più il favore di poter usare delle fotografie, quelle che aveva scattato la sera stessa del massacro dei due ragazzi. Me le fece vedere, qualcuna me la diede anche, meno quella dove si vedevano loro due a terra, morti: “Questa sono riuscito a farla – mi disse – prima che li coprissero e poi li portassero via: ero arrivato per primo, in via Mancinelli. Comunque, non te la lascio perché non voglio assolutamente che sia pubblicata. E’ tremenda, e di queste cose nessuno ha bisogno. Né allora né adesso”. Feci solo in tempo a dargli un’occhiata e provare un brivido insieme a lui, attimo che ci fece tornare indietro prepotentemente nel tempo, poi se la riprese. Scommetto che adesso è sepolta nel suo vastissimo archivio, fonte di testimonianze storiche e politiche come poche altre ce ne devono essere. Solo lui la saprebbe ritrovare, quindi resterà al suo posto, quello giusto, e immagino per sempre. Per restituire le fotografie che mi aveva lasciato è venuto alla redazione dell’Europeo, dove io avevo appuntamento con il direttore, Daniele Protti, per tornare in auto a Roma insieme. Carlo ha abbracciato me e anche Daniele, che non vedeva da anni, e quando siamo partiti lui è rimasto fermo: lo vedevo dallo specchietto mentre ci allontanavamo, e mi è sembrato un addio per sempre. E quello è stato, di fatto.
Mi resteranno di lui tutte queste cose e altre che tengo per me; poi le fotografie a fianco dei miei articoli (che conservo) e l’allegria anche nei momenti bui, la sensibilità che ha avuto nell’aiutarmi nel momento più difficile della mia vita e la gioia che ci prendeva ogni volta che ci vedevamo quei sabati, per una improbabile partita di uno sport che ci vedeva protagonisti per qualche momento, noi del tutto fuori posto, ma solo per chi persegue le distinzioni di classe. Come diceva quel mio grandissimo amico “che è venuto a mancare” adesso, “Volevamo prenderci il mondo, vuoi forse che non riusciamo a prenderci un campo da golf? Mica possiamo lasciare ai padroni anche questa, eh?”, e giù a ridere insieme.
Ciao, Carlo: che la terra, ricoperta di un bel verde pettinato come quello che battevamo insieme nei fine settimana ti sia lieve, ché io voglio ricordarti (anche) così. E stai tranquillo che è per sempre.