Non so perché, ma quando mi sono svegliato stamattina – prestissimo – sono rimasto a letto a pensare e ho cominciato (non so perché, appunto) a farlo riportandomi alla mente molte delle volte che sono stato in un’aula di tribunale come giornalista, nella mia Milano. Mi è venuto in mente quando seguivo i processi, soprattutto per il Quotidiano dei Lavoratori, e uno dopo l’altro mi sono ripassati davanti gli spezzoni di quell’esperienza particolare nelle vesti di testimone silente. Il primo è stato rivedermi, a pochi metri e con le mani che mi prudevano, la faccia di Antonio Braggion, un fascistello viziato del cazzo che aveva ucciso a pistolettate Claudio Varalli, in piazza Cavour, nell’aprile del ’75: una tragedia che ne ha poi subito innescate altre, prima fra tutte quella di Giannino Zibecchi, morto anch’egli a Milano il giorno dopo sotto le ruote di un blindato dei Carabinieri. Mi ricordo il suo avvocato, che nel tragitto dalla gabbia alla parte retrostante riservata ai detenuti lo copriva con la toga perché non potessero fargli delle fotografie, tutte immagini che una volta uscito di galera (non fu nemmeno un periodo lungo) avrebbero permesso di riconoscerlo per strada. E aveva ragione: Braggion, anche per questo, è stato benignamente inghiottito dalla scarsa memoria e dall’indifferenza, che sono due bestie rognose, soprattutto per chi ha pagato con la vita e per la sua famiglia.
Poi, il processo ai ragazzi di Macondo, che mi richiama il ricordo di un tenerissimo Mauro Rostagno con il quale parlavo fitto attraverso le sbarre durante le pause e lui mi teneva le mani in maniera quasi accorata e sorrideva, convinto com’era che quella sarebbe stata comunque una tappa breve di un suo cammino ben più lungo. Mi sembrò da subito un personaggio straordinario e di grandissima umanità. Quando lo uccisero anni dopo mi sentii come se avessero ammazzato un mio parente, anche se la nostra fu una frequentazione breve, e giocoforza blindata. Per quei miei servizi subii anche una serie di critiche durante le riunioni di redazione: erano pezzi giudicati troppo “giovanilisti e movimentisti”, e ci vorrebbe una legenda politicamente vintage per spiegare oggi cosa significano quei termini che potevano bollare in negativo per sempre, ma chi ha vissuto quegli anni capisce senz’altro cosa voglio dire. Me ne fregai, comunque, e continuai sulla stessa falsariga: sono convinto di aver fatto bene, anche a tanti anni di distanza.
Non mancai nemmeno a qualche processo di terrorismo, in particolare uno alle Brigate Rosse, e la prima di una di quelle volte entrai in aula che l’udienza era già iniziata. In tre si voltarono a guardarmi intensamente, e con grande curiosità: Curcio e Fontana che erano nel gabbione, e un colonnello dei Carabinieri che si accorse immediatamente dello strano interesse dei brigatisti per me. Dovevano aver avuto l’impressione che fossi uno di loro chissà come arrivato lì e clandestino, tanto la fisicità barbuta e il vestiario potevano essere scambiato in quel modo. Il colonnello mi prese subito sottobraccio e chiese a bassa voce di accompagnarlo fuori, si fece dare i miei documenti e sparì, per tornare mezz’ora dopo e buttarmeli quasi letteralmente in faccia; io, faccia di bronzo, lo salutai gentilmente e rientrai. I brigatisti, naturalmente, non mi degnarono più di uno guardo. Quello stesso giorno Renato Curcio sibilò a un collega che se noi giornalisti non ci fossimo “comportati bene” un giorno o l’altro ci avrebbero “steccati come cani”; disse proprio così: “staccati come cani”, e mi vengono i brividi ancora adesso.
Mi ricordo anche il processo per l’uccisione di un altro ragazzo di sinistra, Gaetano Amoroso, ucciso a coltellato da un commando fascista – come Braggion, anche loro miei coetanei, anche se così diversi – quasi esattamente un anno dopo l’omicidio Varalli. Lo seguii perché uno dei fascisti era della mia zona e lo conoscevo abbastanza bene. Durante un’udienza ne approfittai per andare vicino alla gabbia dove erano rinchiusi quei bastardi per sibilare: “Uhei, ragazzi, io fra un po’ esco di qua, vado a pranzo, faccio una passeggiata, un bel giro in macchina, poi ceno e per finire alla grande scopo di brutto tutta la notte con una mia amica che ha due tette della Madonna e un culo da favola. Voi invece andrete avanti con le seghe per chissà quanti anni. Bello, eh?”. Uno di loro (se non sbaglio Terenghi) mi lanciò un’occhiata rabbiosa e si portò l’indice alla gola, facendo segno che me l’avrebbe tagliata. Quando ci fu la pausa mi venne vicino un tipo che non avevo mai visto prima; mi disse (sorprendentemente, ché nessuno mi aveva fino a quel momento mai chiamato così): “Dottor Marelli, veda di non provocare, che la tensione è già alta”, e in effetti era vero: l’aula era gremita di ragazzi di sinistra che alternavano slogan e minacce per niente velate. Non si fecero molti anni, gli assassini del povero Amoroso: la condanna era più o meno di 15, immagino che dopo la metà siano già usciti. Prima della sentenza gli imputati possono fare una dichiarazione spontanea, e proprio quello della simulazione del taglio alla gola farfugliò un discorso abbastanza sconclusionato, ma verso la fine mi guardò negli occhi per concludere così: “Quindi, compagni: occhio!”. Non ho avuto timore di ritrovarmelo davanti negli ultimi trent’anni, e non ce l’ho neanche adesso.
Non posso nemmeno dimenticare il processo Ramelli, in tutte le sue fasi. Ramelli era un giovane di destra, iscritto al Fronte della Gioventù e ucciso a sprangate in testa, anche lui in quel terrificante 1975. Non lo posso dimenticare anche perché conoscevo praticamente tutti gli imputati, e alcuni di loro erano amici strettissimi con i quali avevamo militato insieme per anni, e mai avrei immaginato che potessero aver compiuto uno scempio del genere. Se è però possibile, il ricordo più nitido è legato a qualcosa di buffo, e che mi riguarda direttamente. Infatti, durante l’interrogatorio di un teste secondario, non so bene come venne fuori il mio nome. Successe che quello disse, più o meno: “Siccome provenivo da un’altra organizzazione politica, quelli di Avanguardia Operaia mi guardavano storto o non mi consideravano nemmeno. Solo il compagno Tiziano Marelli era gentile e aveva un buon rapporto con me, e ce l’ha anche adesso”. Rammento come se fosse ora che stavo leggendo qualcosa seduto una panca poco distante; a quelle parole alzai lo sguardo, sbiancai e mi chiesi cosa e come cazzo era venuto in mente a quel deficiente di fare il mio nome, in quel contesto. Tant’è che anche il giudice – era Cusumano – disse: “Marelli chi? Non c’è in nessuna carta questa nome”. Guardò gli avvocati che allargarono smarriti le braccia, e così sparii immediatamente dal processo, anche fisicamente per qualche giorno. Non ho mai avuto occasione di chiedere al deficiente che cosa gli fosse mai passato per la testa, ma va bene così. E’ stata quella anche la prima volta di una vicinanza spalla a spalla con i giovani di destra, che fossero i giornalisti di Radio University oppure i semplici militanti del Fronte: si dividevano assieme quasi fisicamente gli spazi, ma naturalmente non ci si parlava, piuttosto guardava in cagnesco; comunque, qualcosa di inimmaginabile solo qualche tempo prima, ché ogni minimo contatto sarebbe finito nel sangue. In quei giorni ho anche avuto l’occasione di “conoscere”, in largo anticipo sulle masse elettorali, la figura di Ignazio La Russa. Era l’avvocato della famiglia Ramelli, e di una cattiveria feroce (ci stava, per la sua parte, eh?) con gli imputati. Una volta notai che aveva quelle assurde scarpe a punta con la frangettina davanti, segno distintivo (almeno, per noi) dei fascisti sanbabilini, e vidi anche che, accavallando le gambe, le suole avevano dei buchi; provai un po’ di pena per lui, ma adesso penso che questo pericolo un po’ straccione non lo corre certo più. La notte della sentenza di primo grado – e della condanna – accompagnai anche fino a casa uno degli imputati, che fra tutti loro era il mio amico più franco. Lo scortai io letteralmente e fisicamente fuori dal tribunale, e nell’occasione mi adoperai per nasconderlo ai flash dei fotografi, in evidente contrappasso a quanto vissuto nel processo Varalli: ancora adesso se ci penso provo un profondo senso di disagio, ma era da fare. Io, lui e gli altri che erano alla sbarra per quel triste e terribile episodio – tutti rei confessi, chi in un modo e chi nell’altro – abbiamo smesso di frequentarci piano piano nel tempo, come doveva essere.
Sono certo che i conti con quegli anni, avendoli vissuti in quel modo, siamo ancora in tanti a farli, e basta un dormiveglia leggero per rinnovarne il ricordo.
Alla fin fine mi sono alzato, e ho ricominciato la vita di tutti i giorni. Anche se ripensare a quelli andati via così, di giorni, mi ha provocato un languore fastidioso e inquieto. Sarà il tempo che passa, che però in certi casi non lo fa mai del tutto. E sarà anche l’età, nel caso tutt’altro che un buon intruglio buono per favorire la smemoria.