Sto imballando le ultime cose, e fra loro c’è anche questo pc: sulla sua tastiera voglio però prima imprimere le sensazioni che mi avvolgono adesso, mentre lascio per sempre la casa di Milano che è stata mia, esattamente per diciassette anni. Era infatti la fine di maggio del ’96, e solo allora finalmente ero riuscito a tornare ad abitare di fronte ai miei figli, dopo una separazione (soprattutto da loro) che mi aveva semplicemente devastato. Cinque mesi di errabondaggio – dalla casa di prima me n’ero andato esattamente il primo gennaio: un modo perfetto per cominciare un anno orribile – e poi la convivenza con uno splendido collega, Ermanno Accardi. Splendido perché mi aveva accolto praticamente fin da subito e mi teneva vivo tutti i momenti (quasi tutti, i momenti) che non volevo nemmeno esserlo più. Splendido anche perché un bell’uomo, senza dubbio, e questa è stata l’arma vincente perché ci potessimo co-intestare il contratto di locazione. Infatti, non abbiamo mai saputo chi è stato ad avere la bella idea (quindi non abbiamo potuto nemmeno ringraziarlo, ma lo avremmo fatto, oh se lo avremmo fatto!), ma il mio “gancio” all’interno del consiglio direttivo dell’Inpgi mi disse che un consigliere si battè strenuamente per la nostra causa, convinto che fossimo omosessuali. La sua tesi passò, noi (che comunque non lo sapevamo ufficialmente) ci guardammo bene dal metterla in dubbio, e ancora adesso la mitica Natalina dell’ufficio Inpgi di Milano quando mi sente al telefono o mi vede di persona non manca di ricordarmi l’episodio, e di ridere a crepapelle. In soldoni, si trattò di una unione civile di fatto molto prima che la possibilità fosse nemmeno in discussione a livello più generale, e quell’esempio di progresso rispetto alle libertà sessuali ante litteram tornò senz’altro utile a tutti e due.
Dopo un po’ Ermanno se ne andò (qualcuno avrà pensato ad una separazione consensuale, e di fatto fu così) e la casa divenne mia, del tutto. I primi anni furono terribili, perché nonostante l’affidamento congiunto capitava spesso che Michele e Stefano non venissero da me, per le ragioni più varie e classiche quando è in corso una guerra fra ex coniugi non pacificati, e mi consolavo spesso con intere bottiglie di grappa primo-prezzo Esselunga, che mi permettevano di addormentarmi di schianto, e almeno riuscire a farlo per tre ore di seguito. Una sera che l’effetto tardava mi ricordo che meditai seriamente sulla possibilità di farla finita; poi l’alcool fece il suo effetto, e il brutto pensiero se ne riandò nelle nebbie del dormiveglia. La mattina dopo, nell’androne di casa c’era un’ambulanza; chiesi al portinaio cos’era successo, e lui mi disse che un collega (lo conoscevo benissimo) della scala a fianco si era sparato un colpo di pistola in testa. Pensai che la morte aveva aleggiato sul palazzo a lungo, e alla fine aveva deciso di cambiare bersaglio. Incredibilmente, proprio da quell’episodio tragico trassi la conclusione che forse era meglio se fossi tornato a vivere, e piano piano successe proprio così, anche se non mancarono altri momenti di tensione altissima, infinite notti insonni ubriache o in compagnia di tante e diverse persone, che la mattina dopo non ricordavo nemmeno chi fossero. Ma qualcuna non la posso dimenticare, come il mio amico del cuore Primiano che mi accudiva come un fratello; oppure il Franco, che chiamavo anche “Bullone”, che era il nome del suo cane: appena arrivava in casa correva alla ciotola del mio gatto (Romeo, altro elemento fondamentale della mia vita anche ora, e l’essere animale non lo rende diverso dagli umani per affetto, anzi…) e si spazzolava tutto in un attimo fra i miagolii di terrore del mio felino. Oppure addirittura Cesare Pompilio, che non era ancora il buffone televisivo che da queste parti lombarde conoscono tutti per le sue penosissime performance sulle tv locali pro-Juve: allora era solo un poverissimo sfigato peggio (molto peggio) di me, che veniva tutte le sere a casa mia per un po’ di compagnia, e ce la facevamo a vicenda.
Ne dimentico tanti, ma li ricordo quasi tutti. E comunque la svolta arrivò quando incontrai la donna della mia vita, che in un niente decise di trasferirsi armi, bagagli e amore da Roma per stare insieme noi sotto lo stesso tetto, e anche se le tensioni e le difficoltà non mancarono per molto a venire, le superammo insieme grazie all’unione fortissima che ci legava. Senza di lei non sarei più riuscito a comporre nemmeno un rigo, e invece poi ho scritto tantissimo e ne ho anche avuto riconoscimenti fin esagerati, come per il libro: se sono riuscito a iniziarlo e a finirlo lo devo unicamente a Igea, che ci credeva ben prima lo potessi credere io, che in fondo anche adesso mi sembra impossibile. Sei anni insieme in questa casa, poi il trasferimento insieme a Roma, in cerca di aria nuova e anche di spunti professionali diversi. Peccato aver pensato ed aver avuto la fantastica idea di esplorare la possibilità che con l’elezione di Marrazzo alla presidenza della Regione Lazio forse potevo servire allo staff del suo ufficio stampa: era proprio così, ed è stato uno dei più grossi errori della mia vita (in genere, quando racconto questa cosa ridono tutti, quindi è concesso anche stavolta a voi che leggete: abbiate solo anche un po’ di comprensione visto il momento). Ma Roma un milanese (come me, almeno) fa davvero fatica a sopportarla nonostante ci siano persone meravigliose (e tutte quelle che ho incontrato fanno adesso parte della mia vita), quindi me ne sono distaccato da poco più di un anno trasferendomi un po’ più a nord, a Nerola: un principio di riavvicinamento che considero solo l’inizio del cammino per un ritorno definitivo dalle mie parti.
La casa nella mia città l’ho comunque tenuta fino adesso, e ci ha vissuto mio figlio Michele; ci tornavo in media una volta al mese, e così pensavo di non aver “staccato” del tutto dalla mia città, e – girando per il quartiere – avevo anche la sensazione di respirare nel mio territorio, ché riempirsi i polmoni così non fa male, anzi rigenera. Ora mio figlio ha deciso di mollare questo dannato Paese e andare all’estero, e fa bene: qui, nonostante laurea in lettere e studi ormai franchi della lingua araba non trova nemmeno un posto in un call center, e allora non gli resta che cambiarla, l’aria. Stefano l’ha praticamente già fatto vista la sua esperienza londinese pronta a rinnovarsi. Quindi, la casa la lascio anch’io, ma adesso che è quasi del tutto vuota mi accorgo (anzi: lo sapevo benissimo) che le pareti sono impregnate della mia energia, e di quella dei miei due figli, che ogni angolo mi ricorda qualcosa, che ovunque volga lo sguardo salta fuori un momento da evocare. Ed è dura, è stato duro arrivare fino alla fine, e sarà ancora più dura fra qualche ora dare l’ultimo giro di chiave alla porta, da dove peraltro ho già staccato la targhetta: la terrà mia sorella, e mi ha detto che me la ridarà quando tornerò a Milano. Perché – come accennavo – ci tornerò nella mia città, ma sarà da un’altra parte, però: quando le storie si ricominciano da dove si erano interrotte devono per forza essere nuove del tutto, e sarà così anche in termini di locazione, quartiere e zona. Nonostante questo, mi è del tutto chiaro che la porta di questa casa sarà definitivamente chiusa fra poco, ma la mia storia che vive lì dentro la porterò tutta appresso con me, dovunque e nel cuore. Assolutamente, non potrebbe essere diverso.