In assenza del “giallo dell’estate” (ormai siamo quasi fuori tempo massimo) i media di ogni parte dello stivale ci ammorbano su Marina B. e tiritera conseguente. Quindi, qualche parola sulla signorina posso dirla anch’io, visto che ci si sono esercitati financo Giornale e Libero, e fra l’altro mi sento in grado di assicurare meno nausea rispetto a quella capace di essere prodotta naturalmente da quei fogli da caserma. E allora procedo.
Predestinata di famiglia perché primogenita – il fratello, secondo in ordine dinastico, è stato dirottato a far danno in televisione – la prode Marina si è fatta le ossicine nei vari consigli di amministrazione di famiglia, prima di andare a commettere sfracelli irreparabili in Mondadori – che, infatti, da anni (più o meno: dalla sua entrata nel Palazzo) soffre di una crisi irreversibile solo in parte mitigata dagli esuberi continui, sistemati in men che non si dica con cacciate di fior di professionisti sul lastrico, quasi senza possibilità alcuna di riciclo. Ho avuto modo di incontrarla un po’ di volte alla Standa, quando ci lavoravo: quella era azienda decotta e vicina all’esalare l’ultimo respiro, e per capire come liberarsi di sedi (anche storiche e prestigiose) e persone era la palestra adatta per una condottiera destinata ad un futuro (sigh!) radioso. Un giorno mi ricordo che prendemmo l’ascensore insieme, e oltre a guardie del corpo sue, ai vari piani entrarono diversi colleghi; lei era ancora abbastanza anonima e semi sconosciuta, tanto che uno di questi si produsse in complimenti non proprio sperticati verso il suo mini-padre e la sua gestione, commenti peraltro del tutto giustificati dal baratro nel quale stava sprofondando quel marchio prestigioso (è così è stato, poi). Schiacciata sul fondo della cabina non si perse una parola, memorizzo i tratti del malcapitato e piano d’uscita, e credo siano poi passati dieci minuti netti dal suo arrivo in ufficio perché il tapino venisse tosto trasferito ai confini dell’impero. Mi ricordo bene anche lui, e le occhiate che gli rivolgevo per farlo stare zitto, inutilmente. Ma – il masochista! – votava Forza Italia già allora, e forse avrà accolto la deportazione come qualcosa di sacrosanto, esattamente come avrebbero forse fatto gli altri milioni che come lui votavano e voteranno per quel simbolo orrendo e si farebbero anche calpestare sotto i piedi volentieri, a patto che questi portino calzature made in Arcore, e va bene tutto.
Marina B. – è una delle poche cose esatte che riportano i giornali, di qualsiasi parte essi siano – è davvero la copia esatta del nano mefitico, soltanto al femminile, ma mi si consenta di andare un po’ oltre la melassa classica che stiamo leggendo tutti negli ultimi tempi fino alla nausea, per provare a considerarmi fuori dal coro: nanerottola con i capelli tinti e il trucco pesante quasi clownesco, stesso carattere finto-amicale che nasconde una cattiveria di fondo e un disprezzo generalizzato per tutti i simili, che del resto nella sua strana famiglia (a proposito: nessuno che si chieda mai che fine ha fatto sua madre, no?) non lo sono mai, per niente: se “simili” ricchi – magari da chissà quante generazioni – e addirittura onesti, risultano per quella bella cricca una sorta di bischeri da barzelletta; se non ricchi, semplicemente catalogati alla stregua di falliti. Bisiosa e scontrosa oltre ogni dire e al di là delle – misurate e del tutto disinteressate – apparenze iconografiche (cfr. la campagna in pompa magna già decollata sui rotocalchi di casa, a partire da Chi), Marina B. rappresenta l’esatto contrario di ogni immaginario femminino che non lo si voglia votato al trucido e al volgare, anche qui brava nell’imitare in distanza siderale da gente “come noi” (ci siamo anche noi, e siamo tanti) il suo contraltare mascolino in tutto quello che poteva: dal padre ha infatti preso quasi tutto e – va da sé, non poteva che essere così, visto il solido imprinting ereditato -, in più soltanto risolvendosi – rispetto a cotanto genitore – nel mettere regolarmente in mostra un immancabile tacco 12 (lui si accontenta del 10) e un paio di tette rifatte, quasi fin dalla più tenera età (questo lui ce lo ha risparmiato, accontentandosi di quelle delle intellettuali sua amiche: bontà sua!).
Credo di poter vaticinare l’effettivo ingresso in politica della prode e salvatrice Marina B., anche perché non ci sarebbero altrimenti possibilità franche e certe per tenere in piedi il baraccone forzitaliota appena smummificato. Già mi par di vedere gli alti cori di gioia dei dieci milioni – e forse più (incredibile!), a sentire non solo la pitonessa – di pecoroni felici di mettere un tratto di copiativa sulla scheda elettorale, senza nemmeno dover ingoiare un altro cognome che non sia quello amatissimo del porcellino-nano, loro primordiale e fulgido esempio di vita da vivere. Silvietto nostro (meno male che c’è, ma forse anche no), fra l’altro, che continuerà a tirare le fila dal comodo divano di casa, solo con l’assillo minimo (ben sappiamo di che consistenza abbia la faccia) di sentirsi un criminale certificato da sentenza definitiva: non è poco, ma alla fin fine nemmeno tutto. E la continuità dinastica è così assicurata, nel simpatico segno del pattume.